Zan-Scalfarotto: il regime di polizia Lgbt che ci riporta dal liberalismo alla società tribale

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Zan-Scalfarotto: il regime di polizia Lgbt che ci riporta dal liberalismo alla società tribale

Zan-Scalfarotto: il regime di polizia Lgbt che ci riporta dal liberalismo alla società tribale

15 Luglio 2020

Il disegno di legge Zan-Scalfarotto contro la cosiddetta “omobitransfobia”, attualmente in discussione alla commissione giustizia della Camera, è la più eloquente dimostrazione di quali siano gli esiti dell’ideologia relativista “diversitaria” ormai egemone da decenni nelle classi dirigenti occidentali, Italia compresa, e trasformata in “catechismo” dai precetti del “politicamente corretto”.

Come tutte le ideologie, anche questa costruisce uno schema di realtà astratto, lontano dall’esperienza comune, fondato su dogmi, imperniato su categorie che separano amici da nemici, buoni da cattivi, e poi trasforma questa visione alienata in ordinamenti, stabilendo divieti, censure, condanne: cercando, insomma, di costringere con la forza la realtà sociale a corrispondere alla propria alienazione, e di reprimere, delegittimare, infamare quanti non si adeguano ad essa.

Rispetto alle altre dottrine ideologiche, però, il politicalcorrettismo si caratterizza in particolare perché esprime una condanna per la storia, la razionalità, gli ordinamenti occidentali in quanto tali, considerando l’Occidente strutturalmente colpevole di imperialismo e discriminazione ai danni di ogni tipo di “minoranza”, da quelle etniche e culturali a quelle relative a costumi e stili di vita. In luogo della visione del mondo umano ampiamente condivisa che la storia euro-occidentale ha costruito nel tempo, l’utopia diversitaria ha adottato un relativismo radicale, in cui tutte le istituzioni, tutte le tradizioni, tutti i costumi sono considerati di pari valore.

Salvo che in questo indifferentismo generale alcuni, come nella “Fattoria degli animali” di George Orwell, “sono più uguali degli altri”: le “minoranze”, appunto, che, secondo la vulgata antioccidentale, sono state vittime di discriminazione da parte dell'”ortodossia” culturale vigente nell’epoca dell’egemonia della civiltà di origine europea. Tutti questi gruppi, queste “identità” (da cui la definizione di “identity politics” per indicare la linea del progressismo “culturalista”) dal punto di vista del “politicaly correct” non soltanto sono portatori, in quanto “innocenti”, di un effetto “rigenerante” sull’Occidente, ma hanno diritto a dei “risarcimenti” per le ingiustizie subite in passato: risarcimenti che vanno dal sistema della “affirmative action” e delle “quote” nel mondo del lavoro, della formazione, della politica, della cultura, al riconoscimento istituzionale dei loro costumi e stili di vita, fino alla legittimazione ufficiale dei loro desideri e aspirazioni come modello per le società.

Il diversitarismo, insomma, sfocia in un neo-tribalismo fondato su una gerarchia imposta dalla capacità di impatto, consenso, propaganda, “lobbying” di ciascun gruppo che ha ottenuto il “bollino blu” spettante alle categorie vittimizzate.

Una gerarchia in cui l’aspetto del riequilibrio socio-economico rispetto all’élite mondiale dominante del passato – il “maschio bianco eterosessuale”, per intenderci – va di pari passo con quello del riequilibrio culturale. Se la discriminazione è stata imposta in passato innanzitutto attraverso la cultura dominante e il linguaggio tramandato, che hanno fatto “interiorizzare” a forza i modelli di vita e comportamento voluti dal “sistema”, la lotta alle discriminazioni trova, secondo le nuove élites intellettul-borghesi della “woke culture”, un suo perno fondamentale proprio nella riformulazione del linguaggio e nella “rieducazione” delle masse secondo la nuova morale civile relativista: cioè nella messa al bando di qualsiasi idea, pensiero, parola “offensiva” verso le suddette minoranze da risarcire, a sanzione del cambiamento effettivo dei rapporti di forza tra le “tribù”.

Uno tra i principali filoni del diversitarismo è stato fin dall’inizio quello delle “minoranze sessuali”, ossia delle “identità” considerate represse dalla società “patriarcale”, espressione dispregiativa per indicare quella fondata sulla famiglia monogamica e stabile di matrice europea: innanzitutto le donne e gli omosessuali, per i quali esso ha predicato non tanto l’abolizione delle disuguaglianze giuridiche e sociali – ineccepibile in un’ottica liberaldemocratica – quanto la costruzione di spazi protetti, riservati, apertamente privilegiati.

Ne sono derivati, per quanto riguarda la questione femminile, un vero e proprio “processo” alla maternità come fattore di disuguaglianza (ne è derivato, come sappiamo, il sempre più gelido ‘”inverno demografico” dell’Occidente da 40 anni a questa parte, con gravissimi rischi economici e di tenuta delle società), la diffusa pretesa di una automatica parificazione quantitativa tra le posizioni di carriera e potere tra donne e uomini (la retorica del “soffitto di cristallo”), il “metooismo” come processo sommario preventivo virtualmente ad ogni maschio in posizioni di potere. Per quanto riguarda invece l’omosessualità, l’accento delle rivendicazioni si è spostato ben presto dalla libertà di comportamento nella sfera privata alla moltiplicazione di identità depositarie di “diritti”, e alla nascita di sigle “sindacali” (le innumerevoli iniziali del movimento Lgbt… ) ispirate dalla teoria “gender”, secondo la quale al sesso biologico si contrappone

appunto il “genere” come percezione soggettiva e rappresentazione di sé. Quelle sigle sono tutte protese alla richiesta di riconoscimento giuridico e di status sociale: da qui l’insistenza sulla possibilità di matrimoni “egualitari” (cioè indipendenti dal genere), sulla legalizzazione della “gestazione per altri” (l’affitto di utero e l’acquisto di ovuli, la programmazione di figli senza padre o madre naturale per coppie gay), sul’accesso dei soggetti “transgender” a tutte le attività riservate al genere “percepito” volta a volta dal soggetto in questione (particolari dispute hanno suscitato in questo senso lo stravolgimento della divisione per sesso nelle competizioni sportive). Ma parallelamente, in piena sintonia con la centralità della “guerra culturale” e del controllo sul linguaggio a cui accennavamo sopra, i movimenti Lgbt hanno posto particolare insistenza anche sulla lotta – attraverso la censura e la repressione legale – a qualsiasi manifestazione di avversione verso le loro rivendicazioni nel dibattito pubblico, nella cultura e nella comunicazione di massa. Il bando e la “rieducazione” per i dissenzienti rispetto al loro affermarsi come élites sociali sono considerati da questi gruppi – in base all’ideologia a cui si abbeverano – come segno e sostanza concreti del potere da essi acquisito. Mettere alla gogna, umiliare socialmente l'”omofobo” e il “transofobo” – cioè in realtà qualunque sostenitore della famiglia tradizionale e sessualità “biologica” storicamente consolidata in Occidente – rappresenta, per loro, uno strumento essenziale per tenere alta la pressione sulla loro auto-rappresentazione come vittime da risarcire ancora, indefinitamente, con crescenti quote di potere.

Questa pressione – già concretizzatasi ampiamente negli ordinamenti legislativi di molti paesi occidentali sottomessi alla “identity politics”, viene fortemente alimentata oggi in Italia come priorità dalla sinistra al governo perché oggi quella sinistra, come in tutto l’Occidente, ha perso totalmente il contatto con i problemi socio-economici delle classi lavoratrici per divenire monopolizzata, dipendente dalle lobby “ultra-borghesi” post-materialiste, di cui il femminismo “metooista” e i movimenti Lgbt sono tra i nuclei più influenti. E, nonostante le proclamazioni in proposito, essa ha perso del tutto, se lo ha mai avuto, ogni contatto con la cultura liberale, per rifluire in una idea sostanzialmente autoritaria del dibattito civile: con una inquietante convergenza, in questi mesi, tra il regime di polizia tecno-sanitaria instaurato dal governo Conte bis con lo stato di emergenza motivato dal Covid, e quello di polizia “biopolitica” invocato a sostegno dell’incontrastata egemonia culturale delle minoranze “gender”.

La storia dell’Occidente, dalle sue lontane radici all’epoca contemporanea, propone un duplice percorso dal particolarismo all’universalismo. Il primo è quello che dalle società antiche fondate sullo schiavismo conduce, attraverso la vicenda del popolo ebraico, alla rivoluzione cristiana, con l’affermazione dirompente del principio dell’uguale dignità e sacralità di ogni individuo. Il secondo è quello che comincia dalla fine dell’Impero romano cristianizzato, dalla dissoluzione di quell’idea appena acquisita di uguaglianza e libertà per l’intero genere umano, e in quasi 1500 anni attraverso la sedimentazione di norme, istituzioni, cultura porta al costituzionalismo moderno, alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, ai regimi rappresentativi liberali e democratici imperniati sulle libertà individuali, che della premessa cristiana (“Non c’è Giudeo né Greco, né schiavo né libero né maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, dice Paolo nella “Lettera ai Galati”) costituivano la più compiuta realizzazione sul piano politico e giuridico.

Dal punto di vista dell’universalismo liberale e democratico, il tema dei rapporti tra sessualità e diritti si risolve interamente nel principio della libertà personale, della “ricerca della felicità” di cui parlava la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776: gli individui non sono definiti dall’appartenenza ad un gruppo fondato su “identità” particolari, ma hanno tutti uguale dignità, e dunque diritto di scelta, nella loro vita personale. I loro comportamenti privati, tra cui quelli sessuali, non assumono una rilevanza pubblica: lo Stato e le leggi davanti ad essi devono arrestarsi, e non pretendere di dirigerli o regolamentarli.

Ma a partire dall’affermarsi del progressismo diversitario l’universalismo ebraico-cristiano, umanistico, liberale ha cominciato ad essere corroso da una nuova, pericolosissima tendenza verso il particolarismo dei diritti, che passa tanto attraverso il relativismo culturale/multiculturalismo quanto attraverso il relativismo biopolitico (femminismo radicale e “gender theory”). A partire dallo slogan post-sessantottino “il privato è politico”, il sesso e le scelte erotiche hanno cominciato a profilarsi, al pari delle diversità culturali, come nuovi fondamenti di un’idea di diritti soggettivi che non riconosce più la comune identità umana, e la sua radice sacra, per riproporre invece una visione castale e gerarchica della società.

Di tale regressione culturale e civile il tentativo di indottrinamento ideologico, di censura, di demonizzazione del dissenso contenuto nel ddl Zan/Scalfarotto è una delle più tipiche manifestazioni. Chiunque si riconosca nella civiltà occidentale e nella cultura liberale non può che opporsi ad esso con tutti i mezzi possibili.