Laico, cioè cristiano
27 Gennaio 2008
Commentavo quasi a caldo il “pasticciaccio brutto” della
Sapienza, che ha coinvolto non soltanto il Papa, ma anche l’Italia tutta,
evidentemente, con un amico ciellino ed entrambi, insieme, abbiamo detto: il
diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Mai motto fu più rigorosamente vero,
come nel caso dell’oltraggio del laicismo totalitario a Benedetto XVI. Intendo
spiegare, se mi riuscirà, perché.
Visto che i motti antichi funzionano, ve ne sarebbe un altro
ancor più suggestivo: Dio scrive dritto sulle righe storte. In chiave di
sapienza storica, abbiamo imparato almeno due cose: 1) sul Soglio di Pietro
siede un autentico laico, un filosofo laico, di profilo direi erasmiano; 2)
nell’universo laicista e cattolico progressista si usano due pesi e due misure:
mentre, da un lato, a Benedetto XVI si impedisce di parlare all’università,
nella città di cui egli è Vescovo, dall’altro, al presidente della Camera,
Bertinotti, viene conferita una laurea “cattolica” che egli riceverà non prima
di aver tenuto una solenne lectio magistralis, di fronte alle autorità ed agli
studenti della Pontificia Università cattolica di Quito, in Ecuador.
Naturalmente Bertinotti è stato invitato, guarda un po’, come si conviene, dal
rettore, il gesuita Manuel Corrales Pascual. Non mi pare che vi siano stati
sommovimenti di piazza per la disparità di trattamento fra il Pontefice e il
Presidente della Camera, e si tratta di un’università pontificia, come dice
l’aggettivo qualificativo: del Papa.
Dunque, i laicisti sembrano quasi invitati a svillaneggiare
il Papa, laddove i gesuiti dell’università di Quito usano il guanto di velluto
con un personaggio politico italiano agnostico e leader di una formazione
politica che si autoqualifica ancora con l’aggettivo “comunista”. Segni dei
tempi? O Nuovi segni dei tempi? Sia come sia, dal momento che ho sempre pensato
che un certo laicismo avesse gioco facile con il progressismo cattolico,
vieppiù proveniente dal Sud-America, non mi scompongo e provo a mostrare che la
qualifica di “filosofo laico di profilo erasmiano” affibbiata al Papa sia del
tutto adeguata alla sua persona ed alla sua opera intellettuale.
Il Card. Bagnasco, nella sua prolusione al Consiglio
permanente della Cei, del 21 gennaio scorso, in un passaggio ha richiamato una
caratteristica del lavoro intellettuale di Benedetto XVI che vale la pena
riprendere: Osserva Bagnasco riferendosi all’enciclica Spe salvi: “Con uno stile felicemente personale, il Papa elabora
una proposta sorprendente che va al cuore e alla mente dei fedeli e dei Pastori.
Attraverso una tessitura testimoniale, egli conduce un serrato ragionamento in
cui storia, filosofia e teologia si intrecciano per decodificare il desiderio
di vita buona e felice che c’è nel cuore dell’uomo e di ogni epoca”. Ecco, qui
c’è tutto Ratzinger: da un lato, l’invenzione di un linguaggio originale e
personale, dall’altro, la tessitura stratificata di storia, filosofia e
teologia. E, si badi, vengono menzionate, prima della teologia, la storia e la
filosofia. Scelta ermeneutica non casuale. Perché anche nel discorso della
Sapienza, mai pronunciato ma presto pubblicato, la sconfessione della furia
fondamentalista dei laicisti avviene proprio sul terreno più caro alla laicità
intellettuale, la filosofia, assai radicata nelle trasformazioni storiche ed
epocali che stiamo vivendo.
Papa Ratzinger, dopo aver richiamato, in questo
discorso, le radici laiche e quindi cristiane di un “nuovo umanesimo per il
terzo millennio”, qualifica accuratamente l’autonomia intellettuale
dell’università, accostando quindi la missione del Papato, quasi in una sorta
di opposizione polare, e ciò per far spazio al cuore della sua riflessione,
sintetizzabile in una precisa domanda: può, il Papa, parlare a tutti in forza
di una ragione etica che non sia condannata ad essere “ancilla” della fede? La
risposta a questa domanda è positiva perché, se non vi fosse ragionevolezza
etica, non vi sarebbe neppure discorso universale e universalmente
intelligibile.
Il Papa non cita neanche il suo amato Agostino, ma Rawls, che,
nell’economia del suo ragionamento, diventa lo strumento dialogico per
riqualificare la ragion etica come razionalità adeguata al discorso pubblico.
Anche la ragion etica sostanziata di religiosità. Dunque, la riflessione in
oggetto non si estranea dal discorso pubblico e dalla temperie storica, ma la
ricomprende e insieme la trasvaluta, fino al punto di spostare in avanti la
cornice complessiva della riflessione sull’università e sulla missione
educativa della stessa. Erasmo da Rotterdam avrebbe applaudito scoltando una
così fine argomentazione. Merleau-Ponty, nel suo famoso discorso al Collège de
France, osservò: “Il filosofo è colui che si risveglia e che parla”. Ecco, il
Papa-filosofo si risveglia di fronte alla storia, con umiltà, e parla, rende la
parola universale ragion critica e profezia. Discorso spirituale fondativo di
un altro ordine del discorso. Tant’è vero che il passo successivo, subito dopo
la domanda circa la missione specifica dell’università, la cui “intima origine”
riposa “nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo”, serra fra le mani
la questione della verità e la scandaglia a partire dalla filosofia di un altro
grande agnostico, Habermas, che si interroga oggi sulla natura del discorso
pubblico in una democrazia, giungendo al punto di qualificarlo come un
“processo di argomentazione sensibile alla verità”.
A questo punto, il tema
della verità e dell’essere sensibili alla verità, diventa dirimente e il
discorso del Papa può ricapitolare la tradizione in chiave nuova. Se è vero,
come è vero, annota Benedetto XVI, che la verità è l’oggetto della contesa e
della ricerca dell’uomo, quale luogo più idoneo alla ricerca di essa potrà mai
esservi se non l’università? E, ancora: se è vero, come è vero, che la
filosofia possiede uno statuto logico ed epistemologico proprio, specifico,
quale sarà il suo rapporto con la teologia, che dispone anch’essa di un suo
specifico statuto logico ed epistemologico? Il nesso sarà, conclude Ratzinger,
cosiffatto: “senza confusione e senza separazione”. Qui si riprende la formula
cristologia di Calcedonia, traducendola in chiave epistemologica, un altro
colpo da maestro. “La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della
ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i
suoi limiti e così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve
continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa
stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile
mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero.
Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia
non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato,
ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme
docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi
davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno
ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino”.
La sostanza della
laicità è tutta condensata in queste frasi. La ricerca dell’uomo non sarà mai
ridotta e censurata dalla fede e dalla teologia, anzi essa, dipartendosi dal
cuore dell’uomo stesso, cioè dall’io, si alimenterà costantemente delle
contraddizioni della vita come anche delle luci della sapienza. In ciò, in
questo felice impasto di storico ed eterno, di ricerca e di intuizione
illuminata, consiste la vita della laicità intellettuale e spirituale (perché
la laicità ha una dimensione spirituale, dal momento che ogni problema culturale
è, insieme, un problema che lo spirito dell’uomo si trova ad affrontare). In
formula: laico, cioè cristiano.