Alcune critiche alla speculazione intellettuale di Carlo Maria Martini
05 Settembre 2012
1. È spiacevole accostarsi (idealmente) alla salma del Cardinal Carlo M. Martini con una disposizione critica. De mortuis nil nisi bonum. Ma la nota ‘ultima intervista’ (CdS 1/9/2012) me lo chiede in coscienza, per la equivocità dei rilievi e dei giudizi sulla Chiesa affidati dal Cardinale al p. Georg Sporschill s.j. e a Federica Radice Fossati Confalonieri. Così, temendo la verità della celebre formula shakespeariana: “Il male che si fa vive dopo di noi,/ il bene è spesso sepolto con le ossa” [The evil that man do lives after them,/The good is oft interred with their bones], direi, non con l’intento di ribaltarne il significato: “Amici (…)/vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo/”.
I temi, i lasciti, presenti alla mente di Martini tre settimane prima della morte, come ci vengono riportati non senza molte indicazioni di lacune o omissioni nel testo dell’intervista, sono dunque: la stanchezza della Chiesa e l’assenza di ardore e di eroismo; l’arretratezza della Chiesa rispetto alla storia, per cui la paura prevale sul coraggio; la semplicità del cuore come criterio pastorale, anzi ecclesiale in toto (‘Solo l’amore vince la stanchezza’).
Queste linee di spiritualità, che nei secoli non sono mai state assenti dall’ordinaria predicazione ai fedeli (salvo il tema della ‘vecchiaia’ della Chiesa, frequentato da ‘profeti’ e ‘riformatori’ per i quali è una premessa tattica necessaria), hanno nel Card. Martini dell’intervista almeno due caratteristiche: 1) sembrano presumere in chi parla un sofferto isolamento mentre esse, incluse le aspre note riformistiche e critiche, suonano, ripetitivamente, da decenni su tante, diversamente qualificate, bocche, così che per chi non sia nato ieri sanno di ‘maniera’; 2) si avvalgono di argomenti o di richiami teologicamente approssimativi, in maniera preoccupante; anche questo non è nuovo e mi è capitato di sottolinearlo, più volte, su www.chiesa.espressonline.it tra il 2007 e il 2009.
Valga un esempio, dalla ‘risposta’ centrale, la più estesa. “Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. Bello, forse, per chi si arresti al suono delle parole, ma equivoco, poiché la recezione di una formula del genere, oggi, non può essere che soggettivistica, subordinata alla presunta centralità dell’io ‘moderno’: il dogma sarebbe dato per chiarire la voce della coscienza e per aiutarla a discernere le/nelle altre coscienze! Qui è contenuto tutto Martini. Ma che il dogma (quello trinitario, ad esempio) sia dato all’uomo come ausilio alle coscienze individuali è solo una impressionante, illogica, ‘chiusura’ spiritualistico-esistenzialistica o potrei dire, più nettamente, tardo ‘cattolico-liberale’, della Rivelazione ai perimetri individuali e relazionali. Detto col massimo di benevolenza, appare la riduzione della Rivelazione ai bisogni del confessore e del direttore spirituale. Né Cosmo né Storia né Città di Dio né Legge (analogata a ‘regola esterna’); né Logos né Nomos. Non mi sorprende che questo registro cristiano ottenga consenso nello ‘stanco’ Occidente.
2. Ma torniamo all’inizio dell’intervista. La Chiesa è vecchia (dirà alla fine) e stanca e la grandezza (materiale) delle chiese, la pesantezza degli apparati, degli abiti, la sfiancano. Abbiamo bisogno di liberaci di tutto questo per essere, almeno, più vicini al prossimo; se qualcuno ha l’eroicità, la vitalità, di farlo non deve subire vincoli dall’istituzione. Anche questo un topos antico, ricorrente (la libertà del carismi) che suona però, nell’enfasi, misconoscimento di dati religiosi e cattolici essenziali: carismi e profezia sono sempre da vagliare, come la dottrina della Chiesa sa bene. “Prophetandum ergo est secundum mensuram, graece analogían, fidei, et intelligentiae concessae” dice la teologia della Seconda scolastica; e può tradursi: “necessariamente si profetizza sotto i vincoli (del canone) di fede nonché di quelli dell’intelligentia, del discernimento intellettuale, che ci è dato”.
Lascio da parte il lamento sulla vecchiezza/stanchezza della Chiesa che ha (non sorprenda) un sapore tutto storico-sociologico, ma vecchio e soggettivo, senza relazione né al quotidiano delle nostre chiese, per nulla ‘stanco’, né alla costituzione divina (teandrica, se si vuole, per ricordare il grande Journet) della Chiesa, né alla verità cattolica. Infatti è piuttosto la verità cattolica (quando non succube, non mimetica del moderno) che si sta lasciando alle spalle una Modernità finita. Prospettive che certo Martini non ignorava, ma che, da anni, restavano opache nella sua stimolazione alla Chiesa.
Che cattedrali, paramenti e ordinamenti siano un peso per la vitalità della Chiesa è un pensiero ottocentesco, un poco da socialismo utopistico cristiano, un poco da coscienzialismo liberale; ambedue i fronti e le sensibilità suppongono un (precedente) smarrimento della verità del Segno e del Sacro. Al contrario, edifici sacri e splendore liturgico parlano di Dio, con un potere di trascendimento della chiusura soggettiva che nessuna parola consolatoria, nessuna umana ‘vicinanza’, hanno. I cristiani che non capiscono questo (una parte della cristianità ha smarrito queste verità da secoli e sta scomparendo, ma troppa cattolicità vuole emularla) sono stati le vittime predestinate delle crisi moderne e postmoderne.
Considerare l’apparire, la manifestazione visibile e sacramentale, della Chiesa come “cenere” è, dunque, un colossale equivoco. L’idea di Karl Rahner, non originale, di “così tanta cenere sopra la brace” nella Chiesa (non leale, nel Cardinale, è il riferimento alla crisi pedofilia) è, in sé, una metafora offensiva per gran parte del popolo cristiano: finisce col far coincidere con la ‘cenere’ quasi tutto, opere e ‘istituzioni’ (dalla gerarchia al dogma, alla carità, ogni dimensione positiva), per elevare arbitrariamente a ‘resto’ biblico, a ‘brace’, i soliti protagonisti, le solite voci (i cd. ‘profeti’ di oggi, i ‘martiri’ sociali – solo alcuni!, ecc.) che, infatti, ora si esaltano alle sue parole e al suo lascito.
Inutile aggiungere, poi, che diritto, uffici e burocrazie (che possono essere corretti o trasformati) sono inseparabili da un corpo sociale vivente. Ma non ci si aspettano in un colto, ‘distante’, gesuita, filologo e saggista, simili tratti di utopismo ‘popolare’ (in effetti influenzato dal rivoluzionarismo borghese). Utopismo tra ‘popolare’ e visionario è l’idea delle “dodici persone” al governo della chiesa, vicine ai poveri e circondate da giovani, “in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque”. Di giovani che aprono una nuova Storia col passo leggero e sguardo puro di chi non è gravato di passato è ricca la letteratura (un tema caro al Novecento europeo – penso al modello alto e precoce [1906] del Maximin di Stefan George), ma nella vitalità di una Tradizione – per dirla solo in termini storico-religiosi – non è la condizione ‘giovane’ come tale che fa alcuna differenza. Giovanni Battista non è profeta perché giovane. Ricordo, esattamente quarant’anni fa, un noto e amato monaco camaldolese (che ci ha lasciati da tempo) fare con infinito candore l’elogio dei giovani, celebrarne il potenziale, affidare loro l’essenziale della trasformazione del mondo e della chiesa. I giovani di allora hanno oggi almeno cinquant’anni; non aggiungo altro. Ma non è il mero fatto (se quei giovani siano stati all’altezza dell’assurda retorica degli anziani) che importa; importa l’assunto estrinseco su ciò che traditio e reformatio ecclesiae sono. Molto, troppo, nella riflessione martiniana, appare estrinseco all’essenza delle cose.
3. La lunga risposta centrale contiene il nodo (teologicamente pesante, improvvido, quello del dogma e della legge come ‘chiarimento della voce interna’) già ricordato, nonché il riferimento ai sacramenti come ‘aiuto per gli uomini nel momento del cammino e nelle debolezze della vita’; un predicabile classico e, ad un tempo, la singolare reviviscenza di una concezione non misterica, non ontologica, dei sacramenti, su cui vi sarebbe molto da dire: non a caso il rinnovamento liturgico ha deviato, smarrendo nel dopoconcilio la teologia liturgica dei Casel, anche degli Jungmann, dei Vagaggini, per un soggettivismo della ‘partecipazione’ immanente all’assemblea liturgica. Si è inoltre obiettato, a questo passo dell’intervista, che i sacramenti non sono solo ‘medicinali’ ma, anzitutto, generazione e nutrimento della vita soprannaturale.
Purtroppo le diagnosi di Martini ruotano attorno a questa delicata, ‘umana’ estrinsecità e restano orizzontali, pragmatiche, ‘troppo umane’. Il Cardinale mescolava, ancora poche settimane fa come anni fa, ragioni pastorali e dialogiche a temi dogmatici ed ecclesiologici con una rischiosa ‘indifferenza’. E al quadro contribuiscono le domande dei curatori dell’intervista: ‘Chi può aiutare la chiesa oggi?’ o ‘Quali strumenti contro la stanchezza della chiesa?’, dove la Chiesa è analogata a qualcosa di molto vicino alle ‘caricature’ dei media (e non forse anche dei ‘progressisti’?), da ‘sostentare’ con ‘strumenti’ che sono, per lo più, strategie di esonero morale e dogmatico.
Lascio per ultima la battuta deprimente: "la chiesa è rimasta indietro di 200 anni". Questa, come altre formule dette e ridette (e di casa nei salotti ‘modernistici’ milanesi da oltre un secolo), non è degna di un qualsiasi uomo di cultura. Nei lontani anni Sessanta, anni che nelle lunghe rievocazioni (2012-2015) dell’imminente cinquantenario conciliare sarà opportuno trattare con la severità che meritano, si potevano dire simili banalità ‘liberatorie’. Erano il pane quotidiano dell’eloquio ‘riformatore’; tesi rafforzare dai teologi secolaristici che tanto impressionavano. Non, però, dopo mezzo secolo di fallimenti di quelle ideologie cristiane improvvisate. Né dopo mezzo secolo di chiarimenti critici sulla Modernità: ha un significato teoreticamente plausibile affermare che qualcuno, che uno stato delle cose, è storicamente ‘arretrato’ di x anni su qualcun altro o qualcosa d’altro? No, se non con riferimento meramente descrittivo a qualcosa di misurabile, settoriale e incrementale (es. tecnologie e conoscenze scientifiche applicate), e non valutativo oltre quella misura. Martini sembrava far coincidere, moderatamente ma costantemente, la Modernità col suo paradigma (anzi con uno dei suoi paradigmi); non era il solo, ma solo i ‘progressisti’ – di ogni tipo – conservano oggi questi tic evoluzionistici.
Per parte mia, non accetterei in una conversazione simili stereotipi sulla Chiesa, e la storia moderna, da parte di persone di media cultura. Ma niente di quello che Martini afferma in questa intervista sarebbe stato accolto, anzi tutto sarebbe stato confutato, anzitutto dalla cultura della Compagnia di Gesù, fino al Concilio.
4. Da qualche parte il Cardinale confessa di aver avuto difficoltà, talora, a comprendere perché Dio abbia fatto soffrire il Figlio; questa bella ‘sincerità’ è, però, indice di strane fragilità teologico-dogmatiche ed anche storico-religiose; né il teologo né lo storico delle religioni (o di antropologia religiosa) hanno paura della sofferenza. Le culture tardoborghesi, quelle della gratificazione sensibile e del danno psicologico, ne hanno paura.
Tale fragilità è riconducibile alla costituzionale debolezza di fronte alle obiezioni dei Moderni, una sindrome, che ha colpito anche i migliori nel corso del Concilio. Leggo che il cardinale parlava talora del ‘non credente’ ch’era in lui. Certo, chi non ha vissuto, non vive, questa dialettica? Ma altro è conoscere, magari scoprire in se stessi, ragioni e sofferenze del non credere, altro è ‘ospitare’ in sé il non credente, dargli uno spazio, lasciargli occupare legittimamente il ‘fòro interno’. Qui sta l’equivoco di Martini come di molte generazioni e intelligenze cristiane.
Mi si dice: vanno criticati gli stereotipi non la santa, amata, persona del Cardinale. Ma non ci si impedisca di vedere che quella santa persona non è stata in grado di evitare, o vagliare, in se stesso, prima di proporli alla chiesa e ai ‘lontani’, proprio quei ripetitivi enunciati che i ‘lontani’ conoscevano a memoria. Lo stesso topos del ‘non avere paura’ (del nuovo) è uno dei più triti, e non coincide davvero con il “non abbiate paura” di Giovanni Paolo II anzi ha un significato opposto: equivocare la cura cattolica per principi e verità e vita con una ‘reazione di paura’ di fronte al nuovo, è cosa da intelligencija. Ed è lo scotto dell’aver abbandonato, come altri ‘eminenti’ personaggi, il solido sistema della cultura ecclesiastica in cui il gesuita si era formato per un ‘umanesimo’ pensato come sufficiente a sé, non bisognoso di dimostrazione, luogo ‘naturale’ del cristiano e della Chiesa. Una deriva (così la giudico) non solo sua, frequente nelle generazioni che si dicono ‘toccate’ dal Concilio, tutta da studiare, dopo cinquant’anni.