Considerazioni finali (ma non troppo) sul viaggio del Papa in Terra Santa

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Considerazioni finali (ma non troppo) sul viaggio del Papa in Terra Santa

18 Maggio 2009

Nel mio precedente intervento su L’Occidentale che aveva come oggetto il viaggio del Papa in Terrasanta osservavo che sarebbe stato necessario attendere qualche giorno, e forse anche di più, per poter fare una valutazione equilibrata. Mi pare che i fatti confermino ulteriormente l’opportunità di avere un quadro completo. In quell’intervento avevo parlato di due fasi molto diverse: la prima essenzialmente religiosa e spirituale e la seconda più propriamente politica, che suscitavano – quantomeno a mio giudizio – una diversa valutazione. Ad esse si è aggiunta la fase conclusiva rappresentata dall’ultimo discorso tenuto dal Papa e pubblicato per intero da alcuni quotidiani e dalle interviste da lui fatte nel corso del viaggio di ritorno. Ho letto e riletto con attenzione quest’ultimo discorso e le dichiarazioni e ne ho ricavato l’impressione di un equilibrio ineccepibile. Anche i riferimenti più propriamente politici – l’auspicio della creazione di uno stato palestinese e della fine delle separazioni fisiche (il famoso “muro”) – sono inquadrati nell’approccio caratteristico di un’autorità spirituale che incita al dialogo e alla costruzione della pace in modo ecumenico, dichiarando esplicitando di non voler prendere parte per alcuno e di voler essere amico di entrambi e, tuttavia, invitando ad abbandonare ogni tipo di azione suscettibile di approfondire le divisioni. Ineccepibile, lo ripeto.

E allora che dire delle precedenti fasi del viaggio? L’impressione che ne traggo, riguardandole in prospettiva, non cambia. Resto assolutamente convinto che i discorsi tenuti dal Papa al suo arrivo in Israele e al Yad Vashem siano stati anch’essi ineccepibili, profondamente partecipati ed abbiano stabilito una volta per tutte il legame profondo e radicato tra Chiesa cattolica ed ebraismo, con una condanna senza appello del negazionismo e di ogni rigurgito di antisemitismo e la volontà chiaramente espressa di spazzare via i residui di antigiudaismo cristiano. Non ho condiviso e non condivido critiche cavillose basate sulla pratica di passare le parole al microscopio.

Resto altresì convinto che la fase più propriamente politica quale si è espressa con il discorso davanti alla barriera di protezione a Betlemme sia stata alquanto sbilanciata e occorrerebbe invitare chi respinge ogni dubbio al riguardo di prendere atto di un sentimento di perplessità largamente diffuso a livello internazionale – che di per sé non si identifica con la “verità”, è ovvio, ma che va comunque spiegato – e l’uso strumentale che la dirigenza palestinese ha fatto di questo discorso, sventolandolo a destra e manca come una manifestazione di scelta di campo del Papa e della Chiesa. E proprio qui sta probabilmente la chiave dell’incidente avvenuto in questa fase intermedia: non aver previsto il rischio di un uso strumentale delle frasi che sarebbero state pronunciate e che avrebbero dovuto essere calibrate per rendere impossibile tale strumentalizzazione.

Non si può difatti negare – i testi stanno a testimoniarlo – che le autorità israeliane non hanno mai avanzato alcuno spunto polemico nei confronti dei palestinesi nei loro discorsi. Al contrario di quanto è avvenuto dall’altra parte, dove è stato un susseguirsi di tentativi di coinvolgere il Papa in polemiche e contestazioni e di tirarlo dalla propria parte. È evidente che accogliere il Papa con un lancio di 61 palloncini neri a ricordo della “nabqa”, con una danza esibendo le chiavi delle case perdute (centinaia di migliaia di cittadini israeliani scacciati dai paesi arabi avrebbero potuto fare altrettanto), fare i discorsi che ha fatto il presidente Abu Mazen, tutto ciò ha creato uno scenario in cui la dichiarazione secondo cui è una sciagura che qualcuno costruisca ancora dei muri ha assunto un significato di parte. Esso poteva essere evitato soltanto aggiungendo che se qualcuno lo aveva fatto era perché ciò era stato reso necessario. Si può ben capire che il Papa non poteva entrare in questa polemica diretta e allora sarebbe stato meglio non parlare di “muri” in quel contesto fisico e in una situazione in cui la parte palestinese faceva di tutto per strumentalizzare gli eventi e, di fatto, non ha accettato di mettere da parte, neppure per un istante un atteggiamento ostile, e di assumere almeno per quelle brevi giornate uno stile di pacificazione.

Pertanto, dopo aver letto i discorsi conclusivi, l’impressione complessiva è che si conferma che il Papa abbia avuto un atteggiamento limpido e trasparente e che, in particolare per quel che riguarda sia i rapporti con l’ebraismo che con Israele, sia animato dalle migliori intenzioni. Ma se ne ricava anche la conferma che egli è molto solo e che, come in precedenti occasioni, è costretto in solitudine a correggere e rimettere sul giusto binario sbandamenti ed errori prodotti da un gestione del contesto quantomeno non convincente.

Vorrei concludere con un paio di osservazioni relative ad alcuni commenti al mio precedente intervento. Scrive una lettrice de L’Occidentale che molti ebrei parlano molto di Israele e non parlano mai del loro Dio. Penso che abbia ragione ma non mi sento colpito da tale critica poiché se parlo o scrivo di Israele parlo e scrivo anche molto della spiritualità ebraica. Altri commenti riguardano il fatto che gli ebrei avrebbero una sensibilità a dir poco esasperata e che sono pronti a irritarsi per la minima cosa non vada loro a genio. Penso che bisognerebbe evitare con cura le generalizzazioni e quindi non parlare del carattere “degli ebrei” in generale. Così eviterò accuratamente di riferirmi “ai cattolici” ma dirò piuttosto che “alcuni” cattolici manifestano parimenti quel tipo di esasperazione, non tollerando in alcun caso che si critichi la Chiesa. Ho letto in un frequentato blog cattolico un riferimento nei miei confronti che esprimeva sorpresa per il fatto che una persona che in varie occasioni (come la mancata visita del Papa all’università La Sapienza) aveva difeso il Papa e mostrato simpatia per le sue posizioni potesse avanzare riserve. In effetti, nei mesi passati e ancora adesso per alcune riserve ho ricevuto attacchi pesanti e persino volgari. Il settarismo è un brutto segnale ed è una posizione perdente. Dovremmo abituarci tutti – cattolici, ebrei e chiunque altro – a sopportare le riserve altrui, purché civili ed esenti da forme di intolleranza, e a discuterne pacatamente e riflessivamente.