Dio esiste e ci ama

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Dio esiste e ci ama

07 Dicembre 2006

“La risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio fino alla fine dei tempi”. Ecco il “grande mistero” che Benedetto XVI ha riproposto nel suo discorso di Verona e attorno al quale ha intessuto la sua “riflessione su quel che appare davvero importante per la presenza cristiana in Italia”. In un momento in cui, fuori e dentro la Chiesa, alcuni parlano della fede cristiana come se fosse una questione eminentemente privata e altri lo fanno invece guardando soprattutto alle sue funzioni sociali, mi sembra che questo riferimento preliminare alla risurrezione di Cristo, quale “esplosione d’amore che scioglie le catene del peccato e della morte” e quindi “centro” e luce della vita di coloro che hanno fede in lui, acquisti un significato particolarmente importante. E’ un po’ come se Benedetto XVI voglia soprattutto sgombrare il campo da certi equivoci che oggi vanno per la maggiore. Il Dio di Abramo e di Gesù Cristo è soprattutto un Dio che ama.  Deus caritas est. Non è dunque un Dio che guarda il mondo con indifferenza, un giudice severo e inflessibile, un Dio che “è politica o niente”, secondo la nota affermazione dell’Hajatollah Khomeini; ma non è nemmeno un Dio da coccolare in privato o nel quale proiettare semplicemente i nostri desideri, una sorta di “oppio” per il popolo, un Dio che serva alla morale, all’ordine sociale, alla giustizia, all’identità di una cultura o semplicemente a farci essere più buoni. E’ un Dio che, amandoci, ci fa vedere la possibilità di un’altra storia, ci sollecita ad amare a nostra volta, a uscire dal nostro “isolamento”, a scoprire l’incommensurabile dignità di ognuno di noi, nonostante le nostre manchevolezze; è un Dio misericordioso che redime e salva e che, proprio e soltanto per questo, ci spinge “a trasformare il mondo”, a lavorare per rendere più umana la nostra vita sociale e individuale.

Richiamato il senso di questa “nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé”, nel suo discorso di Verona, Benedetto XVI affronta il “tema del servizio della Chiesa in Italia alla Nazione, all’Europa e al mondo”. Sugli ambiti di questo servizio –la vita affettiva, il lavoro, la fragilità umana, la tradizione, la cittadinanza- la Chiesa italiana aveva avviato già da tempo la sua riflessione. Ma direi che il papa vi immetta un impulso tutto speciale, un impulso che, affidando ai cattolici italiani una sorta di compito privilegiato: quello di essere fermento per il mondo intero, riconduce i suddetti ambiti a un unico tema di fondo, nel quale vengono concentrate le sfide più pressanti del momento presente e della stessa modernità: il tema antropologico, diciamo pure il senso della nostra libertà e della nostra razionalità, intrecciato col senso e la razionalità dell’intero universo.

A questo proposito mi sembra particolarmente degno di nota il riferimento di Benedetto XVI a quella che il filosofo Juergen Habermas definirebbe una delle “dissonanze cognitive” più emblematiche del nostro tempo: la riduzione dell’uomo a semplice prodotto dell’evoluzione naturale, considerata frutto di una mera casualità, e la contemporanea esaltazione della nostra libertà di scelta. Se il mondo in generale, secondo una linea di pensiero oggi assai condivisa, non è altro che “caso e necessità”; se ciò che chiamiamo mondo umano non è altro che l’ultimo stadio di sviluppo di antichissime comunità batteriche, è evidente che in tale contesto diventa piuttosto difficile parlare di libertà. E questo è quanto meno curioso, visto che, proprio in nome della libertà, si è costituito principalmente il cosiddetto mondo moderno, con la rivendicazione di sempre maggiori diritti in ogni ambito della vita individuale e sociale. Per dirla con le parole di Benedetto XVI, qui siamo di fronte a “un autentico capovolgimento del punto di partenza della nostra cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà”. Si tratta pertanto di arginare questo “capovolgimento”, che finisce per produrre le sue conseguenze più devastanti sul fronte dell’etica, ma alla cui base sta un errore di tipo ontologico-antropologico.

Dio ci ama; “ogni uomo è un pensiero di Dio”, aveva detto il Cardinale Joseph Ratzinger; il mondo è stato creato da Dio e, in quanto tale, ha una razionalità e un senso non riducibili alle leggi dell’evoluzione biologica: ecco, in estrema sintesi, l’indicazione che la fede offre alla nostra razionalità affinché se ne arricchisca, “purificandosi” di certi pregiudizi. Del resto, come ha ricordato Benedetto XVI, “la ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie”, l’idea galileiana di un libro della natura scritto a caratteri matematici, quindi l’idea di una corrispondenza tra le strutture della nostra intelligenza e “le strutture reali dell’universo”; tutto ciò non implica forse che “l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente”? Non è forse proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze che in qualche modo ci avvicina al “Logos creatore”? E’ evidente che se queste domande hanno una qualche plausibilità, allora “viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà”.

Il richiamo di Benedetto XVI a questa intelligenza dell’universo fa del discorso di Verona uno snodo fondamentale per la cultura del nostro tempo. La quale, pur non manifestando più un vero e proprio interesse per le questioni ontologiche, prediligendo invece le questioni che impegnano la nostra libertà, sembra tuttavia inebriarsi di fronte alle varie cosmologie di tipo bio-evoluzionistico. A questo proposito, soltanto per fare un esempio, si pensi al tentativo del cosmologo Steven Hawking di costruire una “teoria unificata completa” che sia in grado di descrivere “ogni cosa dell’universo” e “presumibilmente di determinare anche le nostre azioni”. Ma, a parte il fatto che, senza nulla togliere alla genialità del suo autore,  mi sembra che un tale tentativo pecchi un po’ di presunzione, che fine farebbe la nostra libertà? Che senso ha essere liberi in un mondo insensato, dove tutto, comprese le nostre azioni, sarebbe “determinato”? Non c’è il rischio di perdere in questo modo anche il senso della bontà di ciò che esiste, nonostante le molte storture?    

Forse non è esagerato sostenere che gran parte della filosofia moderna è alla vana ricerca di una sorta di equivalente funzionale di quanto l’amore di Dio è in grado di offrire, ontologicamente, prima ancora che eticamente, a garanzia della bontà dell’essere. Charles Taylor ha mostrato tutto questo in modo, a mio avviso, assai convincente, così come Friedrich Nietzsche, con la sua disperata lucidità, ne ha mostrato i tratti distruttivi e inquietanti. Gli sforzi moderni di costruire una società più giusta, fatta di uomini capaci di riconoscersi reciprocamente, “come se Dio non ci fosse”, alla fine si sono rivelati un fallimento (si pensi all’esperienza totalitaria); le odierne tecnologie della vita, una cultura che, in nome della libertà, le vorrebbe utilizzare senza limiti, elaborando contemporaneamente le condizioni affinché la libertà non abbia più senso, rendono questo fallimento ancora più inquietante. E Benedetto XVI se ne rende conto pienamente; vede il nesso che sussiste tra le ontologie e le cosmologie dominanti e la crisi dell’etica contemporanea, la quale, non per nulla, viene ricondotta prevalentemente “entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso”.

Proprio come auspicava Emile Durkheim, certamente uno dei padri della cultura che pervade il nostro tempo, stiamo subordinando l’elemento morale alle esigenze della vita sociale, mettendo così fuori gioco il senso stesso di qualcosa che valga e che obblighi incondizionatamente. Per dirla con le parole del sociologo francese, la nostra morale è diventata “plastica”; “Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono”; abbiamo una morale totalmente funzionalizzata alle esigenze della vita sociale. In linea di principio, quindi, anche l’uccisione di un innocente può diventare legittima, se si riesce a dimostrare, cosa sempre piuttosto semplice, che è per il bene della società. Utilitarismo, relativismo e funzionalismo, in effetti, non conoscono limiti di principio; pongono volta a volta, a seconda delle convenienze, alcuni valori di riferimento e a questi commisurano tutti gli altri. Se, poniamo, si tratta in primo luogo di produrre merci a costi più bassi possibile, diventa irrilevante che ciò avvenga in condizioni quasi disumane, come accade ad esempio in Cina. Se, per fare un altro esempio, si tratta di abbassare i livelli demografici di una determinata popolazione, di per sé, non si può escludere che si faccia ricorso, come in effetti accade, a pratiche di sterilizzazione coatta. Se, per fare un altro esempio ancora, l’uso di embrioni umani può far avanzare la ricerca medica, nulla deve impedirlo. Se infine, si tratta di soddisfare un desiderio di maternità o di paternità, le conseguenze morali della tecnica cui si fa ricorso diventano indifferenti, poiché ciò che conta è semplicemente il risultato. E si potrebbe continuare.

In ogni caso sono proprio questi esempi che ci fanno comprendere l’importanza di qualcosa che nella nostra vita individuale e sociale obblighi “incondizionatamente”. E’ proprio il caso di dire, con la Deus caritas est di Benedetto XVI, che esiste una inscindibile “unificazione dell’uomo con Dio”. Ragionando “come se Dio non ci fosse”, si arriva, o si potrebbe arrivare, a ragionare come se non ci fosse nemmeno l’uomo. Questo, a mio modo di vedere, è lo sfondo che anima il discorso di Verona e che presumibilmente animerà tutto il pontificato di Benedetto XVI.

Sergio Belardinelli è professore ordinario di sociologia dei processi culturali presso l’Università degli Studi di Bologna. tra le sue più recenti pubblicazioni Contro la paura. L’Occidente, le radici cristiane e la sfida del relativismo (2005) e La normalità e l’eccezione (2002).