Dopo 150 anni anche lo Stato e la Chiesa celebrano una nuova Unità
24 Ottobre 2010
Le peculiarità della nostra storia nazionale, riconducibili a un processo di unificazione del paese condotto contro la Chiesa e anticlericale nella sua essenza, danno sin da subito la dimensione della complessità intrinseca dei rapporti tra politica e religione in Italia. Per più di un secolo, sebbene con modalità e intensità diverse, Stato e gerarchie ecclesiastiche sono stati parti opposte di uno scontro dialettico per la definizione di un equilibrio tra la sfera temporale e quella spirituale che tenesse conto tanto delle esigenze istituzionali quanto della sensibilità cattolica fortemente radicata in tutto il paese.
Tale processo, avviatosi con la nascita dello Stato unitario e, per molti aspetti, ancora in corso, ha attraversato stagioni diverse e con differenti implicazioni, ma può essere sostanzialmente suddiviso in due fasi. La prima, che va dall’Unità d’Italia fino al 1989, comprende a sua volta due momenti distinti in cui la ricerca di garanzie reciproche, esigenza rimasta immutata durante l’intero periodo, fu un obiettivo perseguito con modalità diverse: dapprima attraverso uno scontro totale, che tuttavia celava dietro di sé la ricerca di un punto di equilibrio nelle relazioni tra Stato e Chiesa; processo questo che, tramontato il sogno della capitolazione dello Stato, rappresentò il prodromo dell’avvicinamento storico compiutosi, successivamente, con i Patti Lateranensi del 1929.
A partire dal quale ebbe inizio la fase propriamente "concordataria", orientata – come dicevamo – alla ricerca di garanzie a priori piuttosto che all’incorporazione dei valori propri della fede, nella loro valenza anche secolare, in una idea di cittadinanza diffusa e condivisa. Nel corso di questo periodo si rafforzò la distinzione originaria tra laici e credenti, confermata a posteriori dalla nascita di un partito unico dei cattolici, anche se non mancarono – è giusto precisarlo – i momenti in cui tale schema avrebbe potuto essere messo in dubbio.
Ma essi si riducono essenzialmente a due, coincidenti con le leadership di Giolitti e De Gasperi. Nel primo caso, fu il Patto Gentiloni ad inaugurare una progressiva commistione tra tradizione liberale e religiosità che si sovrappose alla reciproca esigenza di garanzie, ma che rappresentò, in quel momento, un accordo tra vertici che non coinvolse le masse. Ciononostante, ebbe l’effetto di aumentare i contatti e le contaminazioni dei cattolici con i rappresentanti dello Stato liberale, anche a livello di elettorati, dando inizio ad un processo di attenuazione graduale della portata del principio del non expedit, e cioè il divieto ai cattolici di prendere parte alla vita politica del nuovo Stato.
Il secondo momento di relativizzazione della distanza tra laici e cattolici lo si ebbe, invece, all’ombra della guerra fredda sotto la spinta di De Gasperi, che operò attivamente per ricomporre la frattura ricercando una collaborazione tra le due parti nella condivisione di una medesima identità occidentale oltre che, naturalmente, di uno stesso programma di governo. Ma anche questa occasione andò persa, a seguito dell’allentarsi delle urgenze della guerra fredda nel 1951 e alla sconfitta dell’accordo di coalizione nelle elezioni del 1953 che, di fatto, decretarono la fine di quella stagione politica.
La seconda fase dei rapporti tra Stato e Chiesa ha avuto inizio, invece, con la fine della guerra fredda e ha visto, nel tempo, un avvicinamento della componente laica e di quella cattolica, influenzata dai mutamenti intervenuti nel contesto interno e internazionale. Molte delle formule canoniche che fino ad allora avevano regolato il rapporto tra Chiesa e politica in Italia erano state smentite dai fatti sin dagli inizi degli anni Ottanta, perché inadeguate rispetto ai profondi cambiamenti della società e all’avanzamento del processo di secolarizzazione. Proprio in quel periodo è nato il dibattito, per certi versi ancora attuale, sul futuro del cristianesimo e della spiritualità nell’ambito del contesto politico-sociale.
Al fondo del contrasto vi è stata, da subito, un’interpretazione storica diversa. Da un lato, i cosiddetti "cattolici progressisti" sostenevano che il pericolo vero non provenisse né dai comunisti né dal laicismo di stampo risorgimentale, ma fosse rappresentato proprio dai processi di secolarizzazione insiti nello sviluppo della società dei consumi. Ciò portava a ritenere che il compito dei cristiani in politica fosse quello di portare alle estreme conseguenze la differenza tra la "città dell’uomo" e la "città di Dio" al fine di desacralizzare la politica e recuperare alla vera spiritualità uno spazio incontaminato. Sul versante opposto, coloro i quali si opponevano a questa interpretazione valorizzavano, piuttosto, una cesura storica in luogo di una continuità.
Il secolarismo, nella loro interpretazione, non sarebbe stato un destino inevitabile visto che, con la fine delle ideologie totalizzanti, si intravedeva un nuovo ruolo pubblico del cristianesimo, in grado di confrontarsi senza complessi di inferiorità con le grandi trasformazioni indotte dalla modernità nel campo della tecnica, delle scienze e delle istituzioni. Nella loro analisi, la vera contrapposizione dei tempi a venire non sarebbe stata tra politica secolarizzata e sfera spirituale ma, piuttosto, tra nichilismo e affermazione di una nuova cristianità: frattura che avrebbe implicato un confronto con i laici su basi diverse e il rigetto della separazione tradizionale tra la sfera del pubblico e quella della fede.
A posteriori, gli eventi dell’11 settembre 2001 e la conseguente nascita di una sfida identitaria dagli esiti ancora incerti avrebbe confermato la lungimiranza di questa seconda impostazione, che rigetta il relativismo in nome dell’affermazione dei principi della società occidentale. Ciò non preclude, all’esterno, l’accettazione di un confronto con le altre culture e religioni -divenuto inevitabile con la fine della guerra fredda come evidenziato per primo da Samuel Huntington- auspicabilmente basato sul rispetto reciproco piuttosto che su una contaminazione relativistica che porterebbe allo svilimento dei principi in cui tradizionalmente ci riconosciamo.
Questi ultimi dovrebbero rappresentare, sotto il profilo politico interno, una volta finita la Democrazia cristiana e con essa il partito unico dei cattolici, un patrimonio comune a tutte le parti del sistema politico, interpretato e declinato in modi diversi. In questo contesto, chi si è spinto per primo oltre le "colonne d’Ercole" della resistenza al cambiamento è stato Karol Wojtyla, che in numerose occasioni ha ribadito la necessità di una soluzione che contemperasse l’esigenza di mantenimento dell’unità dei cattolici nella diversità degli orientamenti politici.
La caduta del comunismo, accompagnata dallo smarrimento politico della componente cattolica a seguito degli sconvolgimenti del sistema partitico, sottoponeva l’Italia al rischio di una perdita secca di spiritualità, nascosta sotto il manto di un’apparente neutralità valoriale e di un modello post-illuministico fondato sul prevalere delle dimensioni economica e secolarista. L’intento, invece, era quello di ribadire come lo spirito di libertà e quello della religione non siano portati ad elidersi ma, piuttosto, risultino consustanziali l’uno all’altro. Da questa acquisizione deriva la concezione secondo la quale il cristianesimo rappresenta il substrato fondamentale delle società post-moderne e la fede la fonte dalla quale il neo-liberalismo si abbevera per evadere da una prospettiva esclusivamente individualista: affermazione questa che può essere radicalmente sottoscritta tanto da chi è credente quanto da chi la fede non ce l’ha.
Oggi, come in passato, la politica non può fare a meno di qualcosa di più alto e profondo che la ispiri. E cioè di principi fissati a priori, che troviamo nella nostra tradizione e che affondano le loro radici nel cristianesimo, uno dei fondamenti della società occidentale. Questo è il terreno sul quale si innesta la competizione su come declinare tali valori, vale a dire tra una visione progressista e una visione liberale.
Si delinea perciò sempre più chiaramente, in Italia come nel resto dell’Europa continentale, un cambiamento epocale nel rapporto tra religione e politica, con il progressivo allentamento dello schema separatista e l’affermazione di una concezione più anglosassone, per la quale la religione è un elemento sociale diffuso con il quale tutti i soggetti politici sono chiamati a fare i conti. Insomma, in conclusione, a me sembra che a centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, quella frattura presente tra Stato e Chiesa, sulla quale affondano le origini stesse della nostra storia nazionale, sia destinata ad avviarsi verso una graduale e progressiva ricomposizione.
Si tratta di un processo frutto di oltre un secolo di scontri e confronti, che hanno dimostrato l’opportunità e la necessità di garantire, in Italia, la compresenza di laici e cattolici nel rispetto della nostra comune tradizione.
(Tratto da Lo Stato perfetto, rivista on line di politica e cultura)