E’ proprio vero che con Dio o senza Dio cambia tutto? Parliamone
10 Dicembre 2009
Il sottotitolo del convegno Dio oggi, organizzato dal Progetto culturale della Chiesa italiana a Roma da oggi a sabato 12 dicembre, non potrebbe essere più esplicito: Con Lui o senza di Lui cambia tutto.
Nel dialogo ad ampio spettro che vi avrà luogo – esteso dall’arte alla filosofia alla politica al diritto – la Chiesa, proseguendo l’ambizioso progetto ideato da Camillo Ruini e sostenuto dagli ultimi due pontefici, si presenta con una tesi forte, che racchiude un’interpretazione dell’intero mondo umano. Alla luce di questo appuntamento la cultura cattolica appare oggi intenzionata, come non mai, a confrontarsi ad armi pari con le più varie espressioni dell’intellettualità cosiddetta “laica”, o per meglio dire non religiosa.
Con quali argomentazioni si può oggi sostenere che, se si accetta o meno l’esistenza di Dio, “cambia tutto” nella scienza, nella società e nelle istituzioni umane?
La confidenza che emerge in quest’approccio intellettuale deriva, a mio avviso, da due elementi di fondo venuti alla luce con grande chiarezza tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.
Da un lato, la Chiesa e la cristianità constatano come tutte le ideologie e filosofie della storia secolariste – fondate sulla negazione di un punto di riferimento trascendente per la conoscenza della realtà e nutrite dalla promessa di instaurare il paradiso in terra – si siano trasformate una dopo l’altra in un rovinoso cumulo di macerie, lasciando in loro vece soltanto una inconcludente, smarrita babele nichilista/relativista, senza più nessun collante culturale in grado di giustificare il consorzio sociale, il principio di autorità, i poteri, le istituzioni, le relazioni di diritti e doveri.
Dall’altro, specularmente, proprio in mezzo a queste macerie la Chiesa ha tratto le forze per recuperare piena fiducia in un’articolazione razionale della fede: superando tanto la rigidità della vecchia impostazione scolastica quanto le incertezze di un esistenzialismo religioso troppo confondibile con il secolarismo e le ideologie novecentesche, in direzione di una nuova, vera e propria filosofia politica e giuridica cristiana, riconnessa però alle primarie radici religiose del giusnaturalismo e del costituzionalismo moderni.
Nel contesto di questa nuova pagina della sua storia va interamente collocata la genesi del “progetto” ruiniano. Progetto concepito in un’epoca in cui era già tramontato lo scenario internazionale della guerra fredda ed avanzava una globalizzazione che però i cattolici percepivano già con chiarezza come culturalmente acefala (si veda al proposito il monito lanciato già nel 1979 da Giovanni Paolo II con l’enciclica Redemptor hominis, in cui i temi etico-politici venivano ricondotti prepotentemente alla centralità della persona umana contro l’astrattezza dei conflitti ideologici). E nell’evoluzione del quale un ruolo determinate è stato svolto proprio da Joseph Ratzinger: prima come esponente di spicco della nuova teologia, poi come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, infine come pontefice fermamente intenzionato a ristabilire una connessione organica tra prospettiva cristiana, interpretazione razionale della realtà, approccio universalistico al dialogo sui fini ultimi e sui princìpi irrinunciabili della convivenza umana.
La misura di quella svolta si può oggi ritrovare pienamente in considerazioni come quelle che Ratzinger esponeva nella conferenza del 1991 L’elogio della coscienza, recentemente pubblicata in italiano dalla Cantagalli: dove egli puntava al cuore della contraddizione insita nella concezione secolarista e soggettivista del libero arbitrio, affermando l’infondatezza di qualsiasi appello alla sovranità della coscienza individuale, se non a partire da un suo riferimento ad una nozione condivisa e condivisibile di verità. E gli esiti maturi di essa si possono riconoscere nell’autorevolezza con cui il Pontefice, in un discorso come quello tenuto appena l’altro ieri in occasione della festività dell’Immacolata, può ricordare alla società civile mondiale che “c’è […] in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”, proprio in quanto “nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male”.
In una prospettiva analoga, lo stesso Ruini può oggi lanciare l’offensiva culturale e politico-culturale sintetizzata nel titolo del convegno di Roma, così come in quello del suo prossimo volume, Il caso serio di Dio; affermando tra l’altro, come nell’intervista rilasciata al “Corriere della sera” del 2 dicembre scorso, che “se non c’è Dio, l’uomo è soltanto una particella della natura, manipolabile come tutto il resto. Si perde così il riferimento principe della vita sociale, l’idea che l’uomo, come diceva Kant, è sempre un fine a cui tendere e non un mezzo”.
A questa consolidata articolazione di pensiero la cultura che si autodefinisce, per mancanza di specificazioni, “laica” tende attualmente a rispondere soltanto con la stanca riproposizione di un’ideologia scientistica/positivistica, nutrita essenzialmente dalla mitizzazione di nuove e più formidabili scoperte tecnologiche in grado di allungare la vita umana, e di renderla “dolce”, priva di dolore, consegnata al culto soggettivistico del desiderio e della “realizzazione” personale.
Incapace ormai di articolare visioni complessive del senso della storia e della civiltà, essa si riduce a divinizzare quella “coscienza” individuale irrelata, banalizzata in un puerile gioco di “mi piace” e “non mi piace”, di cui Ratzinger aveva svelato l’intima fallacia. E, parimenti, a divinizzare le istituzioni politiche e giuridiche come presidio contro la sopraffazione, senza riuscire a legittimarle in altro modo che attraverso un astratto, idolatrico culto della “legalità”, ormai slegata da qualsiasi senso forte di giustizia.
Inabile a cogliere la struttura di pensiero del nuovo umanesimo cristiano, essa non è in grado né dignitosamente di accettarlo, come dovrebbe, quale base irrinunciabile di una cultura dei diritti e delle libertà soggettive nelle società di massa; né di rivendicare con orgoglio la superiorità del nichilismo, se non negandone aprioristicamente l’esito obbligato di una divinizzazione della forza e della legge del più forte. Si riduce, perciò, per lo più a vituperare la Chiesa per le “clericali” invasioni di campo quando essa si esprime su temi biopolitici; per poi incoerentemente, subito dopo, applaudire i suoi pronunciamenti su temi come l’immigrazione o la solidarietà sociale. Senza comprendere l’intima coerenza culturale che unisce quelle posizioni: l’impensabilità di un’etica e di un diritto non fondati sull’amore per le persone umane nella loro preziosa, irripetibile unicità, data dalla loro condizione di creature.