Gli insegnamenti di Papa Wojtyla per una società libera e virtuosa
04 Novembre 2007
Vent’anni fa, il 30
settembre 1987, nel decimo anno di pontificato, Giovanni Paolo II diede
al mondo la sua seconda enciclica sociale, la Sollicitudo rei socialis. In realtà l’enciclica non apparve fino al
febbraio del 1988. La Sollicitudo rei socialis voleva essere
nel contempo una celebrazione ed un aggiornamento dell’enciclica di Paolo VI Populorum progressio. Fino al quel
momento la Dottrina
Sociale della Chiesa si era interessata soprattutto dei
problemi dell’industrializzazione e della condizione dei lavoratori all’interno
della cultura occidentale ed in particolar modo dell’Europa. La Chiesa, dunque, anche nella sua terminologia
appariva eurocentrica. Lo stesso continente americano appariva lontano e non
del tutto rappresentato. Termini come “liberalismo”,
“capitalismo”, “mercato” – ad esempio – erano intesi sulla
base di un’interpretazione dominante nel continente europeo, mentre oltre
Atlantico gli stessi termini, per ragioni culturali e storiche, spesso venivano
interpretati in modo alquanto diverso.
La “teologia della
creazione”, descritta in modo così brillante da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens del 1981, rappresenta ancora una volta l’architrave della nuova
enciclica sociale. Il teologo e politologo statunitense Michael Novak individua
quattro classici principi della Dottrina Sociale della Chiesa in ordine
all’edificazione di una società libera e virtuosa, in base ai quali la Sollicitudo
rei socialis, aggiornando la Populorum
progressio, sembrerebbe interpretare i fenomeni storici e la
dimensione socio-economica del mondo intero. Tali principi possono essere così
sintetizzati:
1. Una società umana libera e
virtuosa deve tener conto del ruolo giocato dal peccato originale e dai
persistenti peccati dei quali le persone quotidianamente si macchiano. Tali
peccati sono destinati a segnare ogni stadio dello sviluppo umano fino alla
fine del mondo. Dal momento che uomini peccatori non possono dar vita a
strutture senza peccato, il realismo ci pone al riparo dalla deriva utopistica.
Tutte le istituzioni umane sono segnate dal peccato che scaturisce dal cuore
dell’uomo.
2. Così come la radice del
peccato è riconducibile alla libertà dell’uomo, lo è anche la sua dignità. La dignità fiorisce dalla libertà. Sorge dalla
capacità umana di riflessione e di
scelta, una capacità che
imprime in ogni essere umano l’immagine di Dio, il Creatore e che attribuisce
ad ogni persona la titolarità del diritto inalienabile alla libertà.
3. Così come Dio, il Creatore è
Uno, anche il genere umano è uno. Ogni persona è per vocazione chiamata a
promuovere e difendere il bene comune. I beni della creazione sono destinati a
tutti ed è richiesta l’opera di tutti per farli fruttare.
4. Al fine di garantire i
diritti umani, sono necessari governi, i quali sono formati da uomini. Simili
governi devono essere fondati sulla partecipazione e sul consenso dei
governati: il popolo è sovrano.
Corollario di tale affermazione è il principio di sussidiarietà: incapace di
far fronte all’universo dei bisogni e dei fatti umani, lo stato centrale è
potenzialmente e simultaneamente un’agenzia per la promozione del bene comune e
una minaccia per il suo ottenimento. Dunque, il governo deve essere limitato.
Lo stato è un subsidium, un aiuto, e
non un fine in sé. Ciò significa che allo stato è espressamente proibito fare
quelle cose che le persone e le libere associazioni possono fare da sé. Lo
stato, nella concezione cattolica, non potrà che essere uno stato limitato.
Esso si delegittima qualora violi la libertà umana e la dignità che è chiamato
a servire. Non sono le persone create per lo stato, bensì lo stato per le
persone.
Il papa, dunque, fa appello alla responsabilità
delle persone affinché usino la loro libertà in modo virtuoso. Il nome per
indicare la somma delle virtù necessarie per una società libera e ordinata è la solidarietà. Grazie
ad essa ciascuno è responsabile per tutti e si sente coinvolto nel
perseguimento del bene comune per tutti (Srs, n. 39).
Il Pontefice sottolinea che
il Magistero sociale della Chiesa non possiede soluzioni tecniche da offrire,
non propone alcun particolare programma o sistema economico e tanto meno
intende rappresentare una terza via tra il socialismo e il capitalismo,
chiarendo definitivamente un malinteso abbastanza diffuso presso alcuni settori
della Chiesa all’indomani della Populorum progressio
È in questo contesto che il
papa evidenzia “l’opzione preferenziale per i poveri” e l’esigenza di
una prospettiva internazionale per abbracciare l’immensa moltitudine di
bisognosi. Come orientamento particolare in tale materia il papa riafferma che
il diritto di proprietà è un diritto valido e necessario, ma che esso è
sottoposto ad una ipoteca sociale e poggia sul principio che i beni di questo
mondo sono stati destinati per tutti. Il problema pratico è di individuare
quale sistema sociale sia il più adatto a far sì che i beni della creazione
servano al bene comune. A questa domanda Giovanni Paolo II
risponde nel paragrafo 15 dell’enciclica: “il diritto all’iniziativa
economica”; sebbene Giovanni
Paolo II non limiti il suo argomento alla questione relativa
alla mera povertà materiale (Srs, n. 42). Sul tema della libera iniziativa
economica, ribadisce: “Lo sviluppo richiede soprattutto spirito d’iniziativa da
parte degli stessi Paesi che ne hanno bisogno. Ciascuno di essi deve agire
secondo le proprie responsabilità, senza sperare tutto dai Paesi più favoriti
ed operando in collaborazione con gli altri che sono nella stessa situazione.
Ciascuno deve scoprire e utilizzare il più possibile lo spazio della propria
libertà […] É importante allora che le stesse Nazioni in via di sviluppo favoriscano
l’autoaffermazione di ogni cittadino mediante l’accesso a una maggiore cultura
ed a una libera circolazione delle informazioni”
(Srs, n. 44).
L’enciclica si
conclude con un’importante affermazione di carattere storico e filosofico:
“i popoli e gli individui aspirano ad essere liberi” e, citando il
caso dell’America Latina,
riferendosi alla Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II
aggiunge: “tale approccio fa della liberazione
la categoria fondamentale e il primo principio d’azione” (Srs, n. 46). Il
riferimento alla teologia della liberazione è evidente. I teologi della
liberazione hanno usato le categorie classiche del marxismo: la lotta di
classe, la teoria del valore-lavoro, la teoria del plusvalore, l’abolizione
della proprietà privata, rendendole semplici strumenti di analisi, nel
tentativo di scindere, all’interno del marxismo, l’analisi sociale dalla sua
filosofia, accettando la prima e rigettando la seconda. Al contrario,
l’approccio indicato da Giovanni
Paolo II prevede che, partendo dall’esistenza di una Dottrina
Sociale della Chiesa, dalla sua autonomia ed originalità, possiamo elaborare un
giudizio sulla realtà sociale e proporre modelli di riforma sociale ed
istituzionale che si collochino nella prospettiva del messaggio sociale della Chiesa.
Possiamo concludere
affermando che Giovanni
Paolo II con la Sollicitudo
rei socialis II abbia posto l’accento almeno su cinque punti: 1) l’enfasi
posta sulla democrazia come condizione essenziale per un autentico sviluppo; 2)
l’enfasi posta sul diritto di libera iniziativa economica come condizione
essenziale tanto per il perseguimento del bene comune quanto per il rispetto
della soggettività creativa della persona umana; 3) l’enfasi posta sulla
libertà religiosa, la privazione della quale rappresenta una privazione ancora
peggiore di quella materiale; 4) l’enfasi posta sull’affermazione che la Dottrina Sociale
della Chiesa non rappresenta una terza via tra il liberismo e il marxismo che
ha consentito di chiarire non pochi malintesi; 5) l’enfasi posta sulla libertà
in quanto categoria fondamentale e primo principio d’azione che si aggiunge
alla giustizia e alla pace ed offre il valore indispensabile per la promozione
di una società libera e virtuosa.