I ‘Vatileaks’ ci dimostrano solo che un funzionario non è sempre un fedele
25 Giugno 2012
Quanto è stato riportato per canali diversi, in questi mesi, dai media e commentato dai vaticanisti, è probabilmente il massimo che sia dato sapere, con l’avvertenza che si tratta spesso di notizie (e interpretazioni) a somma zero: tanto l’una diviene plausibile, altrettanto l’altra risulta inconsistente.
Quello che sembra certo è un improvvido flusso di documenti dalla Città del Vaticano (in realtà, qualcuno sottolinea, non da questo o quel dicastero ma dai soli Palazzi Apostolici) verso l’esterno. Flusso volontario e involontario, nel sovrapporsi di ‘talpe’ e magistratura (il caso Gotti Tedeschi).
Improvvido per ragioni evidenti. Il ‘segreto’, studiato profondamente dall’eredità filosofica di Hobbes (e di Carl Schmitt), è necessario alla regolazione politica della vita associata. Pubblicizzare ciò che è riservato è – nella sua essenza – una pratica eversiva, che mostra tutta l’irrazionalità delle ‘democratizzazioni’ che favoriscono il fenomeno.
La democrazia è una modalità determinata di esercizio della decisione politica, ovvero la forma politica che permette questo; il suo dilagare analogico (‘tutti in tutto’, ‘tutto a tutti’) suppone o finge o spera una natura umana senza valori, fini, interessi peculiari da affermare; un contenitore vuoto da riempire di news, da eccitare all’azione. Ma nessuna serietà e razionalità politica è possibile al cittadino elevato improvvisamente a Grande Fratello che può spiare l’intero mondo in mutande; o trasformato in una comare democratica satura di maldicenza.
In perfetta analogia con il quadro generale, anche la permeabilità dei Palazzi vaticani può, talora vuole, essere eversiva; provvida, dunque, solo per quanti ritengono, da posizioni spesso distanti tra loro, che ogni danno all’immagine pubblica, al prestigio istituzionale, della Chiesa, costituisca un vantaggio per una qualche causa, un progresso per una qualche emancipazione civile o religiosa.
Da secoli i più temibili nemici, esterni ed interni, della Chiesa sono coloro che perseguono la sua umiliazione con l’intento o il pretesto della sua ‘purificazione’; quando leggo Scalfari o Mauro (altrove, Massimo Franco) solleciti per il bene della Chiesa non tremo solo perché so che non prevalebunt, tantomeno i nemici in formato piccolo. Ma la ‘falsificazione del bene’ che, non da soli, essi interpretano è esemplare e per se stessa dannosa, corrompe. L’aver mescolato, da parte dei media cartacei e televisivi, ‘Vatileaks’ e caso Orlandi ha reso addirittura esplicito il calcolo miserabile soggiacente.
La ‘fuga di notizie’ o di documenti (di modesta portata), non la conflittualità, in sé è il ‘fatto’ da commentare. Ogni sede dove siano in gioco decisioni (e non chiacchiere indifferenti) è teatro di conflitti. La santa Sede ha responsabilità di governo e di rappresentanza precise ed enormi, non trasferibili ad assemblee o sinodi; la clase discutidora non ha potere nella Chiesa né può ottenerlo, per Sua costituzione.
Qualcuno soffrirà sempre del potere esercitato legittimamente da altri, o giudicherà questo potere eccessivo, immeritato, mal diretto. E raramente il ‘giudizio della storia’ consente con il genere di malumori che ogni atto di governo produce; il giudizio alto e prospettico opera su altra scala da quella dei valets de chambre, siano tali in senso reale o metaforico.
Che resistenze e fenomeni di ‘malessere’, fisiologici in un apparato di governo, si trasformino da sentimenti privati in attiva rottura del patto di lealtà con l’istituzione è, dunque, la questione. Il patto che lega un funzionario, un civil servant (anche un funzionario ecclesiastico lo è, titolare di officia della civitas Dei quae est in terris), ha un duplice fondamento, su norme e su valori. Così in ogni struttura di ruolo.
Gli studiosi sanno che la devianza sul terreno assiologico, spesso invisibile perché non rivelata da comportamenti trasgressivi di norme, è la più pericolosa; i danni di un funzionario poco ligio alle regole sono tangibili, sanzionabili, rimediabili, ma i comportamenti di chi è divenuto, o è sempre stato, intimamente alieno (o dissenziente) dalle ‘ragioni’ dell’istituzione sono rischiosi perché imprevedibili, nelle forme e nei tempi. Per di più essi provengono spesso da funzionari la cui ineccepibilità formale ha reso destinatari di notizie e mansioni delicate.
Perché il titolare di un ruolo, copertamente deviante riguardo ai valori che fondano quel ruolo, si macchia di reati ‘politici’? Perché tradisce il corpo di appartenenza? Per interesse, o per volontà di punizione, o ritorsione, verso quel corpo. La volontà di ritorsione nasce patologicamente da un giudizio soggettivo, non sottoposto di regola alla valutazione di un vero ‘terzo’ ma solo di un potenziale complice. Come per il suicidio (secondo Émile Durkheim) anche per il tradimento del patto ‘politico’ direi che si dà una versione ‘egoistica’ e una ‘anomica’. Mentre una tipologia ‘altruistica’ in questo caso non sussiste, perché il traditore diversamente dal morire per proteggere un ordine (come il suicida ‘altruistico’) colpisce l’ordine per gratificare se stesso.
Il funzionario che tradisce per ‘anomia’ aggiunge all’eventuale lucro emergente – che lo decide al tradimento in un momento dato – una denuncia unilaterale del contratto, tacito o formale, che lo lega: l’altra parte (l’istituzione) ha, essa sola, tradito il patto di reciprocità che giustifica la sua obbedienza.
2. Era avvertibile da anni (mi si dice) in ambienti curiali una certa frustrazione caratteristica di un funzionariato che si giudicava non riconosciuto: ‘il Papa scrive, ma non governa’, ‘questo o quel prelato hanno troppo peso’, ‘x o y sono incompetenti ma godono di protezioni’ ecc. Nulla che sorprenda, come si è detto; risentimenti fisiologici, oltre a giudizi (come quello sul Papa) di funzionari incapaci di intendere perché un Pontefice scelga, anzitutto e soprattutto, di interpretare il suo ruolo magisteriale.
Come quella latenza abbia potuto alimentarsi e prendere consistenza ostile in una struttura coesa e delicata come la Città del Vaticano, e perché non sia stata percepita o prevenuta, è una parte importante del problema. Chi tradisce, come chi (si) uccide, si camuffa di ‘ragioni’; ma chi governa, se conosce gli uomini, deve saper discernere la riflessione legittima dalla critica pretestuosa, dalle maschere di un percorso criminogeno.
Certo, è un esercizio di governo, e non da parte di una sola persona (il Segretario di stato, ad esempio, non è solo nel suo lavoro), che può essere reso più difficile da ‘oscure’ legittimazioni date ai (o attese dai) comportamenti devianti. Le legittimazioni appaiono di due tipi, almeno: quelle interne, che provengono da chi si attende che le fughe di documenti indeboliscano questa o quella ‘parte’ o gruppo; e quelle ‘esterne’, da chi si attende che lo ‘scandalo’ conduca ad un collasso-rigenerazione (o al solo collasso) della Santa Sede e/o della Chiesa.
Ora, le legittimazioni interne, vere o immaginate, possono proteggere il comportamento deviante come tale, ma hanno gambe corte. L’organigramma dei poteri si altera in tempi brevi; vittorie e sconfitte, premi o punizioni finiscono per prendere forma. Segue sempre un disciplinamento. Vedremo.
La motivazione ‘per il bene della Chiesa’ è più insidiosa, come detto; copre la rottura del patto con l’invocazione di valori superiori e porta vantaggio alle diverse opposizioni antiromane, nel mondo, alle legittimazioni esterne, che la stimolano. Piccoli Savonarola laici e teorici di governi ‘sinodali’ della Chiesa, in sedi giornalistiche prestigiose e non, lavorano in questa direzione. Ai nomi, ‘laici’ che ho ricordato, si potrebbe aggiungere una soddisfatta schiera di ‘gente di chiesa’, dai Melloni ai don Gallo, dal ‘popolo’ di Adista a ‘Noi siamo chiesa’.
L’intera crisi curiale sembra, in sintesi, dovuta a forti disarmonie interne trasformate in tradimento dalla pressione e fascinazione di attori esterni. Forse la Città del Vaticano è divenuta troppo porosa, strutturalmente, a causa di un’incontrollata globalizzazione su piattaforme e networks ‘riservati’, che invitano a tradire il segreto ‘politico’ con la stessa facilità con cui le persone parlano al cellulare, di fronte a terzi, dei loro fatti privati.
Ma specialmente, credo, per una debole formazione ‘etica’ del funzionario medio della Città. Un funzionario del Vaticano non è necessariamente un credente, ma – e peggio – un funzionario credente non è necessariamente ‘etico’, ovvero leale alla Chiesa istituzionale; un’evidenza, e un male, questi, che colpiscono la chiesa universale e non sorprende che possano insidiare i Sacri Palazzi.