II Papa si è conquistato un’occasione storica ma ha perso quella politica

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II Papa si è conquistato un’occasione storica ma ha perso quella politica

14 Maggio 2009

Occorreva attendere qualche giorno per poter fare una valutazione equilibrata del viaggio del Papa in Terrasanta, e forse occorrerà attenderne altri. Tuttavia già da ora è possibile avanzare un giudizio che conferma impressioni maturate in altre situazioni e in altre vicende. Potrei riassumerlo in questo modo: fino a che Benedetto XVI si muove sul piano prettamente spirituale, religioso, teologico, dottrinario, egli appare mosso da una lucidità e da una chiarezza di intenti assolutamente trasparenti; sul terreno prettamente politico le cose vanno in tutt’altro modo. Difatti, giunti alla tappa di Betlemme il suo viaggio appare spaccato come una mela in due parti che hanno una portata diametralmente opposta nei rapporti con Israele e l’ebraismo.

Nella prima fase del suo viaggio, essenzialmente dedicata ai temi del dialogo interreligioso e del rapporto tra cristianesimo (cattolicesimo, in particolare) ed ebraismo, il pensiero di Benedetto XVI è apparso trasparente e soprattutto equilibrato. Egli ha saputo usare un linguaggio aperto e ineccepibile sia nei confronti dei musulmani che degli ebrei. In particolare, dopo l’incidente dei propositi negazionisti del vescovo Williamson e le polemiche sulla preghiera del Venerdì santo, la questione del rapporto con l’ebraismo era centrale e le attese erano grandi. A mio avviso, la scommessa è stata vinta. Non sono affatto d’accordo con chi ha cavillato sulle sillabe del discorso allo Yad Vashem, si è impiccato sul fatto se fossero o non fossero stati menzionati esplicitamente i nazisti e sul perché non era stata chiesta scusa. La sostanza di quel discorso era ineccepibile e rifletteva il profondo legame che unisce Benedetto XVI all’ebraismo, più volte espresso e confermato da parole, gesti e atti concreti; e, in questo caso, testimoniato dai continui riferimenti all’Antico Testamento con la dottrina e la sensibilità di chi sa che cosa sia importante per l’anima ebraica. L’invito a sgomberare definitivamente il campo dai detriti dell’antigiudaismo cristiano è stato chiaro e definitivo. Chi ha polemizzato si è arrampicato sugli specchi.

Ma quando il discorso è passato sul terreno politico le cose sono andate in una direzione ben diversa. E’ difficile dire se questo sia avvenuto perché il Papa si muove a disagio sul terreno politico o perché si affida ai consigli e all’organizzazione di collaboratori che hanno già mostrato nel caso Williamson un livello di goffaggine sconcertante, ma di certo quel che è avvenuto mercoledì rischia di distruggere i risultati delle giornate precedenti. Non si tratta del fatto che il Papa abbia difeso l’idea della creazione di uno stato palestinese, visto che questa parola d’ordine è un luogo comune ampiamente diffuso. E potremmo ben considerare secondario che oggi questa parola d’ordine sia del tutto irrealistica in quanto sono soprattutto i palestinesi a non volerne sapere di realizzare uno stato. Essi non sono in grado di trovare un’unità su questo obbiettivo. Siamo all’indomani di una rottura tra Hamas e Abu Mazen e lo slogan delle trattative è una parola vuota perché non si sa con chi e su che cosa si dovrebbe trattare. In fin dei conti, se si fosse trattato di un’invocazione generica di un’autorità spirituale che invita alla pacifica convivenza non vi sarebbe stato nulla da dire. Ma non si è trattato di questo. Già il gesto di indossare la kefiah sulle spalle, due volte reiterato, ha avuto il senso di una scelta di parte molto marcata: la kefiah non è un simbolo religioso, bensì un simbolo politico alquanto estremo.   Ma tenere un discorso davanti alla barriera difensiva, detta “Muro”, dicendo che «in un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte, al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali, è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri» è molto grave. Sarebbe stato più appropriato dire che «è tragico che si sia costretti a erigere dei muri» anziché dire che «è tragico che vengano eretti». E questo per ricordare che Israele è stata costretta a erigere quel muro per difendere i suoi cittadini da attentati criminali che ne hanno ucciso o mutilato per sempre un numero impressionante. Il Papa ha parlato soltanto della tragedia della divisione e dei disagi che il “Muro” comporta per i palestinesi, non ha neppure accennato alle cause che ne hanno determinato la costruzione e come – tragicamente, è il caso di dirlo – esso abbia dimostrato la sua efficacia e la sua necessità.

Certo, il Papa ha invitato i palestinesi a non ricorrere al terrorismo e alla violenza, ma ancora una volta, parlando di Gaza ha parlato della necessità di togliere il blocco non dicendo da cosa questo blocco è stato causato. In questo viaggio abbiamo fin qui sentito molte parole sulle sofferenze del popolo palestinese, non abbiamo sentito nominare una sola volta le vittime israeliane del terrorismo palestinese, non abbiamo sentito il nome di Sderot, e soprattutto non abbiamo sentito un invito ai palestinesi a riconoscere una buona volta l’esistenza dello stato di Israele. Senza un invito di questo genere a che cosa serve parlare di due stati per due popoli, se non a riattizzare il sentimento sbagliato di aver tutto da pretendere e nulla da concedere?

E che la questione del diritto a Israele ad esistere, ed anzi il pervicace desiderio di vederlo sparire, sia del tutto aperta è stato reso evidente da un episodio: quando, nel momento dell’incontro tra il Papa e il Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e il Primo ministro Salaam Fayad per visitare una scuola, sono stati rilasciati in aria 61 palloni neri a simboleggiare il lutto per i 61 anni di vita di Israele. In tal modo la presenza del Papa è stata strumentalizzata per rovesciare in modo derisorio il suo discorso di pacificazione in un appello all’odio e alla distruzione.

In questo contesto a dir poco difficile, se il discorso fosse rimasto sul terreno prettamente religioso-teologico, nulla da dire. Ma esso è sceso sul terreno politico, e su tale terreno ha messo in luce un disequilibrio sconcertante che, lo ripetiamo, rischia di distruggere in un sol colpo tutti gli effetti positivi della prima fase del viaggio.

Vorrei concludere osservando che il giudizio qui espresso esprime un punto di vista diametralmente opposto a quello di certa sinistra anche ebraica, sia in Israele (si pensi al giornale Haaretz) che altrove. Questi ambienti trovano sempre da ridire sul piano teologico e religioso, avanzando e critiche cavillose e irrilevanti nei confronti del Papa che è invece del tutto sincero e trasparente ed ha contributo come pochi altri a ristabilire un buon rapporto tra ebraismo e cattolicesimo. Al contrario, ora essi salutano con fervore la presa di posizione politica sostanzialmente filopalestinese del Papa. Non posso che ritenermi soddisfatto di trovarmi su posizioni simmetriche a quelle di chi coltiva quella ben nota sindrome detta “odio di sé”.