
Il “fuoco amico” non aiuta l’azione riformatrice di Papa Benedetto

23 Luglio 2010
Iniziamo con un esempio fiorentino, per capire. Il 28 giugno scorso, a Firenze, Antonio Socci polarizza attorno a sé un incontro, promosso si dice dalle “vittime” (le due pubblicamente attive, cui va aggiunto un ex sacerdote), ma favorito da ambienti cattolici “conservatori”, sul caso Cantini/Maniago. Monsignor Claudio Maniago è il vero bersaglio, perché è uno dei sacerdoti cresciuti nella parrocchia di don Cantini ed è giunto all’episcopato. L’incontro pubblico avviene nell’Auditorium ‘al Duomo’, un Centro congressi che sembra scelto maliziosamente nel cuore della Firenze religiosa. Confortato da molte presenze tutto si risolve in una contenuta, ma effettiva, requisitoria nei confronti del ‘silenzio’ dei vescovi fiorentini degli ultimi decenni. Direttamente e indirettamente anche l’Arcivescovo Betori, estraneo alla vicenda (remota, ma esplosa nel 2004), viene chiamato in causa, in virtù della permanenza nella carica di Vicario generale dell’ausiliare mons. Maniago. Si dà lettura di un messaggio del segretario di mons. Rino Fisichella, in cui si assicura la vicinanza del prelato alle “vittime”, conosciute nel 2007 ad “Anno zero”. Quanto basta per far titolare “La Repubblica”: La Curia tace, Roma saluta le vittime. Si fanno circolare sottomano dei dossier (a carico di Maniago), e si parla di nuove denunce presso le istanze romane competenti. Un incontro, dunque, che vede come attori una piccola rappresentanza del clero, un noto saggista cattolico e, ‘in spirito’, l’attuale (dal successivo 30 giugno) Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione; siamo a due passi dall’Arcivescovado, ma né Socci, tantomeno mons. Fisichella, hanno avuto cura di avvisare l’Arcivescovo della loro iniziativa.
Un incontro che ha impressionato molti, ma in cui hanno prevalso, come risulta dalle cronache dei giornali e dai partecipanti, dolenti retoriche e disattenzione al profilo dei fatti, molto complicati (la “pedofilia” nel caso don Cantini non è la fattispecie penale prevalente). Perché il mondo cattolico “conservatore”, o meglio una parte della costellazione che lo forma, ritiene di potersi muovere, oggi, in termini talmente scorretti, nella forma e nella sostanza, nei confronti dei vescovi? I sintomi di una strana congiuntura nei rapporti tra Santa sede e CEI erano già tutti presenti durante la vicenda Boffo. Si è cercato, anche opportunamente, di non sottolinearli, favoriti in questo dal protagonismo di Feltri che ha finito con l’accollarsi tutta la responsabilità della caduta dell’allora direttore di Avvenire.
Per parte mia avevo tentato una prima diagnosi (già nel settembre 2009, qui e qui, ripresa poi tra febbraio e marzo 2010), sottolineando come la vicenda Boffo ed altre, se lette nelle pagine dell’Osservatore Romano, rivelassero una grave riserva di alcuni ambienti “vicini al Papa”, certamente prossimi alla Segreteria di Stato, verso gli episcopati nazionali. Ho scritto che la diffidenza di Roma nei confronti degli episcopati, europei in particolare, resistenti ad indirizzi e iniziative del Pontefice – al suo rinnovato magistero esplicitamente dottrinale, al suo tentativo di riavvicinare il mondo tradizionalista, agli interventi sulla liturgia -, è motivata. Già prima dell’esplodere della crisi “pedofilia”, chi sapesse leggere coglieva l’insoddisfazione di papa Ratzinger per gli esiti del cammino postconciliare in molte chiese nazionali; sapendo leggere si avverte oggi come la critica alle carenze delle chiese sulla questione degli abusi sessuali sia ricondotta dal Pontefice anche ad insufficienze basilari nella dottrina, nella concezione della vita sacramentale e pastorale, presso i sacerdoti, i seminari, infine i vescovi stessi (cfr. l’Occidentale, 29 marzo 2010).
Il “peccato nella Chiesa” è realtà complessa. Ma davo corpo al mio stupore per il fatto che, oltre il caso Boffo, interventi e censure evidentemente rivolti a segnalare la scontentezza di Roma fossero ricaduti su episcopati o su vescovi (dall’Italia al Brasile) sintonici con Roma e con Benedetto XVI. Abbiamo attribuito in molti questa sprecisione di tiro, questo “fuoco amico”, alla difformità di indirizzi e di persone che caratterizza ancora l’organigramma della Curia romana. La crisi “pedofilia” ha complicato il quadro, ma ha anche dato contorni più netti, per quanto si può capire, ad alcune componenti del mondo, o del partito, ‘romano’. Il mondo che definiamo “conservatore”, al quale ritengo di appartenere ma che preferisco definire come il complesso delle minoranze che si sentono confortate e confermate dall’ermeneutica della continuità (unità profonda di preconcilio e Concilio e necessaria unità del presente con quella) di Joseph Ratzinger, aveva accolto favorevolmente la caduta di Boffo. Il giudizio sulla inopportunità della permanenza di un uomo discusso alla testa del quotidiano della CEI si articolava variamente, dall’argomento politico, sensibile alle ragioni di Feltri, a quello degli equilibri nuovi tra Papa e chiese locali, come in Messori ad esempio; non credo di esser riuscito a convincere molti amici della sua erroneità, nel merito e nei modi. I “conservatori” sottovalutavano sia l’origine della guerra a Boffo, a partire dai conflitti entro (e per) l’Università Cattolica, sia l’implicazione anti-Ruini che sembrava investire (senza ragionevolezza) lo stile e i risultati di una più che ventennale cerniera tra Roma e la CEI, sia i rischi di una successione ad Avvenire, non preparata, anzi forzata; dico del fatto non delle persone.
Dallo stesso “mondo”, non isolato, si è accolta e fatta propria con entusiasmo l’iniziativa critica e penitenziale di Benedetto XVI sul peccato nella chiesa. Si consultino i blog, ad esempio il Papa Ratzinger blog ove, come in tutte le piattaforme adottate dalla “democrazia della rete”, trova spazio anche l’esagitazione. Non è solo la costellazione conservatrice a farlo; vi è un’obiettiva convergenza con la mobilitazione “da sinistra” nella polemica nelle chiese locali contro i Vescovi, a Roma contro alcuni ambienti di Curia; gli uni e gli altri farebbero sorda “resistenza”, come dicono i giornali, all’azione papale riformatrice dei costumi. Accanto alla sincera volontà di costituirsi come milizia accanto al Pontefice, affiorano motivazioni che hanno radici in un’altra storia. Alle catene d’uomini che hanno governato le nostre chiese dagli anni Settanta-Ottanta la costellazione “conservatrice” ha molto da rimproverare, fatte le dovute eccezioni: la scomparsa della dottrina (dogmatica e morale) nella pastorale, la banalizzazione della catechesi e della liturgia, le concessioni (anche solo di fatto) a tendenze democratizzanti nella chiesa, la “distanza” da Roma – sono certamente le imputazioni più condivise. E la difficoltà in cui molte chiese locali si trovano oggi, in una dolorosa anamnesi alla ricerca del peccato gravissimo dei preti e dei suoi contesti facilitanti, rende vescovi e cleri particolarmente vulnerabili di fronte al severo consuntivo di errori e insufficienze che viene loro presentato, con riguardo ma senza tenerezze, da culture, come quelle “conservatrici”, tenute per decenni ai margini. Era da prevedere.
Comprendo la strategia: in nome del rigore del Papa ottenere legittimi risultati anche su altri fronti, pastorali, liturgici, formativi; e preferisco, sotto ogni aspetto, la critica ai vescovi in nome di Benedetto XVI alla deprecazione antigerarchica e alla kermesse “dal basso”, come si era iniziato a fare. Ma il metodo e i consensi al metodo sono ancora una volta, come per la vicenda Boffo, sbagliati. Prima di procedere a fondo con una valutazione critica, andranno riconosciuti i meriti di una chiesa come quella italiana; se l’Italia rappresenta una “eccezione” nel quadro europeo della secolarizzazione lo deve certamente, negli ultimi quarant’anni, al fedele lavoro del suo clero (parroci, religiosi, vescovi) sul piano locale, assieme, e non secondariamente, alla originale sinergia tra Roma ed episcopato a partire dagli anni del pontificato di Giovanni Paolo (un risultato in buona parte frutto dell’ingegno politico-religioso del Card. Ruini). Che singoli vescovi, o parte del laicato “qualificato” e dei teologi, siano stati resistenti alla relazione privilegiata della chiesa italiana col pontificato wojtyliano non ha impedito al corpo dei vescovi, come tale, di risentire positivamente della rivoluzione di Giovanni Paolo II. Inoltre, il complesso dei rimproveri e delle imputazioni ai vescovi va, per dire così, disaggregato. L’estrema diversità tra diocesi e diocesi, nel tempo e nello spazio, imporrà giudizi di volta in volta ricalibrati. Che, però, sia l’ora di chiudere la lunga parentesi di un’architettura e un’arte religiosa mediocri se non deprecabili, è evidente, e non così difficile da ottenersi.
Basterà imporsi che il recente concorso ‘Nuove Chiese Italiane 2010’ sia anche l’ultimo condotto con quei criteri e quei risultati (chiese ir-riconoscibili, pressoché aniconiche, che sembrano destinate a spiritualità e assemblearità non cattoliche), e, con ciò, porre una pietra tombale su decenni di errori. Che il controllo episcopale sugli abusi liturgici (piccoli e grandi), coerenti spesso con architetture cervellotiche o insignificanti ma sempre ripugnanti al semplice fedele, e con il massacro dell’arredo preconciliare (tutto per la “attuazione del Concilio”), debba essere deciso e più consapevole, e più convinta l’attuazione della Summorum pontificum, va da sé. Che a generazioni di insegnanti, ambiguamente problematici o frondosamente “ermeneutici”, debba subentrare nei Seminari e nelle Facoltà teologiche altro, ovvero una teologia più ‘classica’, più consistente per la coscienza di sé della chiesa e per la formazione dei chierici, anche questo va da sé. Inoltre: poco di diverso dal passato si farà senza riferirsi al lavoro di revisione che si sta conducendo a Roma, e ignorando la guida, anche intellettuale, del Papa.
Detto questo, niente in linea di principio autorizza singoli protagonisti ‘romani’ (laici ed ecclesiastici, portatori di qualche ufficialità o liberi battitori) a strappare nuovi orientamenti nella chiesa italiana su terreni vitali (lex credendi e lex orandi, e su quella via pulchritudinis che non può non essere una vocazione italiana) sotto la minaccia di critiche e sanzioni o anche solo desolidarizzazioni, che paiono la prassi più frequente; insomma facendo surrettiziamente leva su vicende controverse, comunque dolorose, di altro genere. Non sfugge che una volontà di rivalsa dopo decenni di sofferta, ingiusta, marginalità delle minoranze critiche conservatrici può essere cattiva consigliera. Vi sono poi effetti perversi da calcolare. Anzitutto, l’uso di un deterrente qualsivoglia, quello che capita, per ottenere risultati su altro fronte, è una tattica praticata storicamente “a sinistra” – pur nella difficoltà di distinguere destra e sinistra in condizioni di crisi e mobilitazione. Così si sono date e si dànno, anche in ambito ecclesiale, convergenze strumentali destra-sinistra nell’illusione di moltiplicare le forze, ma col risultato di confondere chi osserva e disorientare i protagonisti stessi, che raramente sono dei grandi tattici. Inoltre, tentare di legare le mani ai vescovi (“per il loro bene”, s’intende) in congiunture cruciali, sembrando invocare un mandato implicito del Pontefice, rischia effetti opposti ai desiderati: resistenza dei vescovi sui terreni oggettivamente estranei alla questione morale e disciplinare; ricadute di ostilità (inedita) nei confronti di Roma nella chiesa italiana.
Dunque. La chiesa da cui emergono vicende deprecabili è anche una chiesa segnata da meriti straordinari; solo gli sciocchi sottovalutano la complessità della chiesa-societas. Una complexio di meriti ed errori, di qualità e debolezze, è costitutiva di ogni esercizio di governo. La chiesa italiana merita rispetto e solidarietà da parte della Santa Sede (e magari li ottiene, ma nella dissonanza di troppe voci) e da chiunque altro; ed è un errore, sotto ogni aspetto, che qualcuno esibisca personalisticamente in nome del Papa una informale potestas coercitiva contro i vescovi. Il Papa e le Congregazioni romane, però, in virtù dei propri carismi d’ufficio e del palese servizio alla Verità prestato nel contrastare le derive dell’ultimo mezzo secolo, debbono essere seriamente e autocriticamente ascoltati da cleri e laicatiqualificati, e dai vescovi, che vorremmo più decisi sui terreni critici (lex credendi/lex orandi). A queste condizioni la chiesa italiana può essere modello della ricostruzione delle cattolicità europee.