Il Papa d’Occidente
07 Dicembre 2006
Un partito papista
Esiste il partito di Dio e sono gli Hezbollah, rappresentanti in Libano del peggior Iran. Contro un siffatto partito qualcuno vorrebbe si opponesse un partito del Papa. Insomma, Benedetto XVI alla Segreteria, con Manuele il Paleologo alle Relazioni internazionali e il cardinal Bertone vicesegretario, di un partito papista che dal discorso di Regensburg prenda forma e si organizzi come nuova forza di “liberi e forti”. Per riempire un vuoto: di cristianità, di liberalismo, di Occidente.
Non si possono, proprio in Occidente, non registrare alcuni sviluppi inquietanti. C’è stata in settembre l’indisponibilità del Parlamento europeo a votare in favore della libertà di espressione del Pontefice. C’è stata compatta sordità in tutti i governi europei (in primis, in Italia) di fronte all’assassinio di suor Leonella il 18 settembre. Nessuno poi, se non una piccola pattuglia di cattolici ed ebrei americani con Elie Wiesel fuori dal Palazzo di Vetro, ha contrastato lo spregiudicato protagonismo del presidente Ahmadinejad alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove l’Europa ha pacificamente dialogato con le sue rivendicazioni del nucleare e dell’antisemitismo (e dell’uno in funzione dell’altro).
Su tutt’altro piano, invece, si è svolta l’iniziativa della Fondazione Magna Carta dedicata quest’anno a “Religione e spazio pubblico”: relatori il cardinale Carlo Caffarra e il senatore Marcello Pera. Come era prevedibile, a Norcia l’eco di Regensburg è stata intensa ed è riemersa la questione delle radici religiose dell’Europa.
Perché oggi l’eredità giudaico-cristiana meriterebbe spazi di costituzionalità che mai la storia del costituzionalismo europeo le ha in passato dischiusi? Forse, si è detto a Norcia, proprio per compensare lo spazio perduto nella legislazione ordinaria, nel sistema scolastico, nel sentimento pubblico, nella vita familiare. Là dove l’eredità giudaico-cristiana viene quasi ogni giorno sacrificata sull’altare dei buoni rapporti con l’immigrazione islamica e con le sue provenienze mediorientali.
Esiste in Europa una tradizione liberale e democratica. In essa rientra pure San Paolo, ebreo romano di grande sapere giuridico. Grazie a lui la Chiesa non nacque con la pretesa di sostituirsi ai poteri secolari come fonte dell’ordine legale; in pieno accordo con la parabola dei tributi, vera anticipazione di liberalismo («date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»). Invece, si prospetta oggi un feroce “scontro di identità” all’interno della stessa cultura islamica, nel terrore che la libertà di parola possa privare i fondamentalisti di quella presunta purezza in nome della quale sarebbero pronti a dare o ricevere la morte. Il fanatismo sembra spesso l’altra faccia della paura di perdere la propria identità.
Di qui la straordinaria umanità del professor Ratzinger nella sua ansia di attenzione reciproca, nelle sue meditate citazioni. Un partito del Papa in Occidente forse sarebbe una forzatura. Anche per questo “Forza Papa” non è un partito, perché è molto di più.
Dal medievismo al liberalismo
Una conventio ad excludendum nei confronti di Dio da parte degli economisti non avrebbe senso. Di qui l’intelligente ricostruzione, sul sito della Fondazione Magna Carta, di Salvatore Rebecchini, presidente della Cassa depositi e prestiti, sulle radici giudaico-cristiane dell’economia moderna. Vi si richiama una suggestiva considerazione dell’allora cardinale Ratzinger nel 1986: “oggi abbiamo bisogno del massimo di conoscenza economica specializzata …”
David Landes, professore emerito di economia alla Harvard University, ha analizzato recentemente le ragioni del maggior sviluppo, a partire dal XIII secolo, dell’economia occidentale rispetto a quella cinese (che pure disponeva di uno straordinario patrimonio di conoscenze scientifiche). Accanto a più diffuse forme di tutela dei diritti di proprietà, a favore dell’Occidente avrebbero giocato tre ordini di fattori di natura culturale, etica, religiosa. In primo luogo, il rispetto del lavoro manuale. Poi, l’idea di una predestinazione delle cose all’uomo e non viceversa. Infine, la concezione della linearità del tempo, contrapposta alla visione ciclica, spesso statica, delle società orientali. Tutti e tre questi elementi possono ricondursi all’ebraismo, al cristianesimo, e in particolare all’attività monacale, da Landes considerata «custode della conoscenza» o anche «scuola di tecnologia».
Rebecchini ritiene che il sistema produttivo dell’economia di libero mercato abbia origini medioevali. Certo moralismo cattolico non può dirsi meno “capitalista” di certo moralismo protestante: anche nel rifarsi al ruolo dei corpi intermedi e ai valori della sussidiarietà.
E se dal campo della storia delle dottrine economiche ci si sposta a quello della storia delle dottrine politiche, s’incontra quel grande storico del liberalismo che fu Nicola Matteucci, scomparso qualche settimana fa. A lui, contro ogni prospettiva di positivismo giuridico, premeva che le basi del costituzionalismo moderno fossero, come nella storia americana, quelle del costituzionalismo medievale (lex supra regem); perché nel diritto naturale non c’era nulla di mortificante per la libertà delle coscienze.
L’importanza e il peso della dimensione etica nel mondo dell’economia sono figli dell’economia di mercato. C’è un crescente ricorso delle famiglie (soggetti deboli) agli intermediari finanziari (soggetti forti) cui affidare i propri risparmi sulla base di un rapporto di fiducia, di responsabilità, di moralità, che è l’anima del capitalismo. Studioso e credente troppo fine per dirlo in termini ineleganti, Rebecchini riconosce a questo Papa una predisposizione favorevole all’economia di mercato ben più difficilmente rinvenibile negli scritti e nei discorsi del suo predecessore.
Da Regensburg a Verona
Nei confronti di questo Papa, ha ricordato nello scorso ottobre monsignor Rino Fisichella, quella di Oriana Fallaci era davvero “venerazione”. Di qui la decisione di lasciare libri, ricordi, manoscritti alla sua università (la Lateranense ormai, non più quella di Regensburg) e di offrirgli così in qualche modo un’occasione per tornare sulla crisi di cultura e identità dell’Occidente. Papa devoto all’Occidente, non v’è dubbio, Benedetto XVI. Senza se e senza ma: fra l’altro in un momento nel quale l’Occidente sembra piegarsi, confuso e scompaginato, a forme di totalitarismo inedite.
La Nato in Afghanistan, anche perché Norvegia e Italia sostengono di aver già dato abbastanza, non riesce a contrastare la riconquista talebana. Bush in Iraq evoca gli incubi del Vietman. La missione dell’Onu in Libano non prova neanche a disarmare Hezbollah, i cui arsenali si fanno sempre più ricchi e son sempre rivolti contro Israele.
Ma c’è soprattutto aria di abdicazione, se non di resa, sul fronte interno. Dall’Europa provenivano gli assassini dell’11 Settembre, quelli di Madrid, quelli di Londra. Ma in Europa una sorta di processo per reati di opinione si è preferito farlo subire alla somala olandese Ayaan Hirsi Ali, al vignettista danese Flemming Rose, al professore francese Robert Redeker. Sul loro esercizio della libertà d’espressione sono stati avanzati dissensi, mai registrati in altri casi: per esempio, quando recentemente l’Arab European League, organizzazione molto attiva nei Paesi Bassi, ha diffuso un dépliant nel quale si mostrava Anna Frank a letto con Hitler e si leggeva: «scrivi questo nel diario, Anna».
Poiché la viltà non viene mai adoperata in modica quantità, c’è stato poi pure chi avrebbe voluto che a ravvedersi fosse il Papa, prendendo le distanze dalla lectio magistralis di Regensburg e dalle sue implicazioni. Magari a Verona. Magari in nome e per conto di un’Italietta che dall’Occidente si estranea, che con Ahmudinejad intesse rapporti, che il diritto delle donne islamiche a non indossare il velo non sa garantirlo. Magari in nome dell’antipatia per la figura e per la memoria di Oriana Fallaci.
Ma il Papa ha parlato a Verona tutt’altra lingua. Uno storico come Alberto Melloni ha sottolineato come «confrontato col discorso di Giovanni Paolo II a Loreto, è stato un discorso più da Papa che da Primate d’Italia… ha insistito sui grandi temi del suo pontificato, forse più europei che italiani». Appunto, come a Regensburg, come sempre: con la mitezza e la moderazione dei forti.
L’Europa non è storia di una sola idea, bensì una tradizione di molte idee. Non la si può liquidare badando che tutto venga concesso o proibito a seconda giovi o meno alle magnifiche sorti e progressive del dialogo con l’Islam. La Fallaci, non meno di Manuele Il Paleologo, appartengono a tale tradizione. I loro non saranno testi sacri, ma neppure indegni di attenzione.
L’Europa, la Nato, l’Occidente
Sul viaggio del Papa in Turchia il più sguaiato era stato Prodi. Poi di fronte al libro thriller apparso giorni dopo nella patria di Ali Agca, Chi ucciderà Benedetto XVI a Istambul?, la tensione giungeva al culmine. Ma nessuno osava denunciarlo in un’Europa impegnatissima da qualche anno a censurare della Turchia codice penale, repressioni di diritti umani, procedure illiberali.
Seppure dettata da tutt’altre sensibilità, anche l’iniziativa del Vaticano è parsa muoversi fra colpi e colpetti del gelido ping-pong diplomatico in atto sul Bosforo. Luogo–simbolo Santa Sofia: l’antichissima chiesa cristiana, trasformata in moschea nel 1453, alla caduta di Costantinopoli e divenuta museo negli anni Trenta del XX secolo per volere di Kemal Ataturk. Perché Istambul non apparisse la seconda Roma, proprio a Santa Sofia i nazionalisti più duri e i fondamentalisti islamici hanno cercato di saldare le loro proteste. Ma alla fine la contestazione non ha coinvolto la nazione in profondità.
Oggi che la Turchia non combatte più per sottomettere Budapest e Vienna, ma combatte per diventare essa stessa europa e farsi accettare dagli europei, ai nazionalisti e ai fondamentalisti non si può concedere nessuna freddezza nei confronti di questo Papa. Meno che mai da parte del governo. Ed è significativo come Erdogan, in un primo momento tentato dallo “zapaterizzarsi”, abbia poi cambiato idea.
La moderna nazione turca non è più quella evocata dalla massima autorità religiosa del Paese, il gran mufiti Ali Bandakoglu. Geograficamente essa oggi coincide col rettangolo anatolico; storicamente è creazione di quel partito “europeo” dei Giovani Turchi dal quale proveniva Atatürk. Negli ultimi ottant’anni il nazionalismo turco ha mostrato all’Europa muscoli riformisti, fin troppo artificiosi, e orgoglio islamico abbastanza tradizionalista: l’uno contro l’altro, certo, ma talvolta pure l’uno stimolato dall’altro.
Secondo Bernard Lewis, la Turchia kemalista si sarebbe “europeizzata”, senza riuscire a “occidentalizzarsi”. Ma un’europeizzazione, isolata da una “occidentalizzazione” a tutto campo è insufficiente. Lo stesso Erdogan talvolta l’avverte. Non è un caso che, dopo qualche esitazione, abbia dato massimo ascolto e massima attenzione alla parola di Ratzinger e al significato profondo del suo viaggio. Integrarsi in Europa per la Turchia implica di integrarsi ancor più in Occidente.
La agenda del presidente del consiglio, del resto, del resto, aveva previsto il vertice NATO di Riga. Il che è valso a ricordargli come l’Alleanza Atlantica altro non sia se non quella scelta di civiltà con la quale l’Occidente ha sconfitto Stalin e suoi eredi, i quali, per irridere al Papa, amavano chiedere quante divisioni avesse, salvo poi accorgersi che ci sono missioni che si svolgono meglio senza alcuna divisione. Ad esempio, quella di Benedetto XVII in Turchia, dove non meno che a Regensburg e a Verona il Papa ha parlato come creatura e creazione dell’Occidente. Non è poco di questi tempi.
Luigi Compagna è professore Ordinario di Storia delle Dottrine Politiche presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma. Senatore dell’Udc nella XIV legislatura. Tra le pubblicazioni recenti, Parlamentarismo antico e moderno (2003) e La democrazia dei liberali (2000).