La nostra fede è il Papa, se ne facciano una ragione i progressisti nostrani

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La nostra fede è il Papa, se ne facciano una ragione i progressisti nostrani

La nostra fede è il Papa, se ne facciano una ragione i progressisti nostrani

14 Luglio 2007

Anche il raffinato
vaticanista di Le Monde, Henri Tincq,
che aveva dato migliori prove del suo rigore intellettuale agli esordi del
pontificato di Benedetto XVI, cogliendone la dirompente carica teologica e
spirituale, ha preso una cantonata: l’ultimo documento dottrinale redatto e
pubblicato per mano del cardinale americano William Levada, prefetto della
Congregazione per la Dottrina
della Fede (cioè del Papa stesso), non produce alcuna ferita al dialogo
ecumenico, semmai ne rafforza l’intensità di ricerca della piena verità.
Peraltro, si tratta di materia già nota, sono postille alla Dominus Jesus, di fatto, e sul piano
dottrinale quel famigerato “subsistit” era diventato materia di storia della
teologia da molto tempo.

Quando l’ho studiata io,  negli anni novanta, era già questione
considerata risolta e in ogni caso non meritevole di laceranti conflitti
interni alle confessioni cristiane. Sul punto del tradizionalismo, infine, la
questione muta di segno, ma non intacca la fluidità storica della risoluzione
di questo nodo ecclesiologico. Nella Chiesa che si dice appunto “cattolica” –
che significa appunto ”universale”, kath’olon,
secondo l’intero – sussiste completamente la Chiesa di Cristo. Le altre sono comunità
ecclesiali, realtà ben diverse, non “la” Chiesa in un’altra forma declinata.
Poi, è naturalmente vero, ma ciò da sempre, che nelle comunità ecclesiali
protestanti e ortodosse orientali sono presenti “elementi di verità e di
santificazione”: ma già i Padri dicevano e il Concilio ripete che perfino la
realtà mondana è piena di “Semina Verbi”, di semi e segni del Verbo di Dio.
Ecco, dunque, il punto.

Melloni polemizza sempre a bella posta dalle colonne
del magnifico potentato mediatico (un vero Papato mediatico-finanziario),
facendo assurgere il ben noto e recentemente scomparso Alberigo al rango di
gigante della storiografia cattolica del Novecento: fra il primo e il secondo
c’è la differenza che intercorre fra un nano e un gigante. E stiamo parlando di
Alberigo, dunque non certo di un gigante, ma casomai di un ideologo d’assalto
di impianto dossettiano “riformato”. Dunque, la questione non si pone, se non
che in termini ideologici e mediatici, eppure, a onor del vero, non possiamo
trascurare anche quest’ultimo aspetto. Perché ogni corrente di reformatio Ecclesiae, dopo il Concilio,
gigantesco evento mediatico e simbolico, oltre che ecclesiale in sé e per sé
(da esso è nato il Sessantotto come retorica di rottura con l’establishment,
essendo parte del medesimo, non dimentichiamolo), è stata inoltrata e sbandierata
ai quattro venti dalla carta stampata, penso all’Espresso che pesca nel torbido dei peccati intra-ecclesiali e alla Repubblica che inventa cristianesimi
vari a seconda dei momenti storici, con l’avallo di alcuni prelati di grido, a
cominciare dal Card. Martini, un prezioso esempio di gesuitismo
paradigmaticamente di segno gramsciano. Dunque, si badi, a suo modo, un grande
nel genere.

E la teologia della liberazione? Pomposa semi-eresia pelagiana
intinta di marxismo vulgato e mal digerito, già condannata dall’allora Card.
Ratzinger, ed eretta a vessillo anti-cattolico-apostolico-romano dagli organi
di stampa progressisti. Senza tener conto che i teologi della liberazione –
come scrisse, al di fuori di ogni sospetto, Colletti negli anni ottanta – provenivano
dagli ambienti accademici tedeschi e francesi, super-protetti e super-curiali,
insomma un clericalismo “rosso” a prova di bomba. Tutti i clericali del
Novecento e anche “post-moderni” sono tutti “de sinistra”, non ci piove. Il
popolo va a Medjugorie, prega la
Madonna, va a Messa, pure a quella in latino, non adora
capire tutto, ma adora sperare in ciò che viene detto nella lingua della
Chiesa, insomma, i progressisti clericali sono una genìa elitaria, e razzista
nei confronti del popolo cattolico in quanto tale. Esso viene concepito come
gli etnologi dell’Ottocento concepivano le tribù della Papuasia, gente con
l’anello al naso e bisognose di paternalismo arbitrariamente
anti-cattolico-romano. Le critiche al documento in questione sono ancora queste
e sono sempre mosse dai soliti ignoranti progressisti, che sparano contro le
ombre (percepite come) rosse, prima ancora di vedere il toro. It’s the same old story, come cantava
mille anni fa quel tal cantautore (do you
remember Cat Stevens
?) in seguito convertitosi all’Islam (deve aver letto
qualche trafiletto di Melloni tradotto per The
Guardian
). Una storia vecchia, ripetuta e oggi diventata farsa collettiva.
Nessun progresso, neppure nelle critiche. Il flop globale del progressismo
clericale. Il cosiddetto “nuovo” che arretra. Aveva ragione don Orione: la
nostra fede è il Papa. Per dar ragione di ciò, basterebbe guardare chi,
dall’altra parte, tenta sempre di impallinarlo. Eh, sì, la nostra fede è
proprio il Papa. Ogni Papa. Questo Papa.