La storia e la giustizia nella nuova enciclica di Benedetto XVI

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La storia e la giustizia nella nuova enciclica di Benedetto XVI

04 Gennaio 2008

1. La Spe salvi, pubblicata da papa Benedetto XVI lo scorso 30 novembre, rappresenta  – al pari della precedente Deus caritas est – una non piccola novità nel genere “enciclica”, a cui pure appartiene. Lo stile fluido, non appesantito da continui richiami scritturali o da citazioni di prammatica del magistero precedente, e il confronto serrato ed esplicito, che vi viene condotto, con alcuni fra i maggiori rappresentanti della cultura contemporanea, cristiana e non,  rinviano alla forte personalità del Pontefice: insomma se talora per le encicliche (anche importanti) di precedenti pontificati ci si è potuti porre il problema di chi ne fosse stato il vero estensore, qui siamo di fronte a un testo evidentemente “d’autore”, meditato e scritto dal Ratzinger teologo e pastore. Questa impronta personale è stata criticata: si è detto che Benedetto XVI continua a fare l’esegeta della teologia di Joseph Ratzinger, volendo quasi sottolineare l’unilateralità o la scarsa rappresentatività del suo insegnamento. Ma sarebbe gravemente erroneo rappresentare questa e la precedente enciclica come esercizi meramente intellettualistici privi di una reale rispondenza con la situazione spirituale della nostra epoca: essa intende, come accennerò, riproporre con forza la speranza cristiana a un mondo in cui sono “silenzio e tenebre” le grandi religioni politiche del Novecento e nel quale l’unica vera alternativa sembra restare quella dello scientismo nelle sue varie manifestazioni.

Ma non è su questi aspetti teologici che mi voglio fermare: non ne avrei neanche la competenza. Da studioso di storia, mi limiterò invece a proporre qualche riflessione sulla visione della storia umana che Benedetto manifesta in questo suo scritto recente, in particolare sul percorso della storia moderna e contemporanea. Questo perché credo che la dimensione storica (e il problema della “giustizia nella storia”) sia centrale nell’enciclica e che ad esso il Papa dia una soluzione che rinvia ad alcuni di quelli che, per lui, sono i fondamenti del cristianesimo.

2. Si possono individuare due archetipi nella concezione cristiana della storia (mi muovo – lo dico una volta per tutte – con estrema sommarietà). Agostino di Ippona  la concepisce come un’eterna lotta  fra due “città”, la divina e la terrestre, che sono compresenti e saranno in conflitto sino alla fine dei tempi: esse verranno distinte soltanto al momento del giudizio finale. Questa di Agostino resta la critica più radicale di ogni millenarismo, cioè di tutte quelle concezioni che hanno a più riprese sostenuto che la città divina avrebbe prevalso, in un futuro più o meno prossimo e irrevocabilmente, sulla città terrena e si sarebbe realizzata nel mondo. Essa nega che l’umanità, gravata dal peccato originale, possa conoscere nella storia un’integrale liberazione dal male: ogni generazione deve così rinnovare la sua battaglia per il trionfo del bene, pur sapendo che quel trionfo non sarà mai definitivo, e che, anzi, potranno aprirsi anche momenti di “ritornante barbarie”. Da tale concezione derivano talora atteggiamenti di rinunzia al mondo (contemptus mundi), in attesa che esso “invecchi”, ma anche un impegno intenso, pur se privo di illusioni (pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà, si potrebbe dire con un celebre motto della tradizione socialista). Si tratta di una visione tragica, non consolatoria: «Il mondo è come un torchio, che spreme.  – dice Agostino –  Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio, vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile».

Esiste anche un’altra linea, quella della tradizione escatologica dei primi tempi del cristianesimo, che attendeva una realizzazione storica del regno della giustizia. Essa è ripresa – un secolo prima di Dante –  da Gioacchino da Fiore (il «calavrese abate Giovacchino/ di spirito profetico dotato»), che previde uno sviluppo provvidenziale del processo storico verso un’età dello Spirito, in cui l’umanità si sarebbe pienamente realizzata. E’ noto come una serie di studiosi novecenteschi (da Karl Löwith a Eric Voegelin) abbia visto nel gioachimismo un momento decisivo della storicizzazione dell’escatologia cristiana e, quindi, una premessa (anche col suo ritmo triadico) delle filosofie della storia ottocentesche.

Benedetto XVI resta nell’ambito di una concezione agostiniana della storia: lo conferma  la critica che egli elabora all’idea di progresso, tipico prodotto della modernità. Bisogna intendersi: il Papa  distingue tra “sviluppo” materiale (tecnologico, scientifico, economico) e “progresso morale”. Il primo è innegabile e ha apportato grandi benefici all’uomo, ma presenta anche un volto ambiguo: «senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male» (par. 22). Ma in campo morale è ipotizzabile qualcosa di simile all’accumulazione di conoscenze che si ha nella scienza, un progresso, come dice Benedetto, «addizionabile»? È possibile costruire sulle scelte etiche fatte dalle generazioni precedenti, darle come irrevocabilmente realizzate e quindi ridurre progressivamente, nel mondo, la possibilità di male, fino a farla scomparire? L’uomo del XXI secolo costituisce un progresso morale rispetto a quello del XVIII, perché ha proclamato la moratoria della pena di morte, predica il rispetto dell’ambiente e l’uguaglianza fra i sessi? Se così fosse (si potrebbe aggiungere) anche il cristianesimo sarebbe solo una tappa del cammino dell’umanità (importante quanto si vuole, ma destinato a essere superato da qualcosa di ulteriore) e  la meta dell’ “oltre-uomo” predicata, in modi diversi, da Marx come da Nietzsche, avrebbe una sua plausibilità.

Il Pontefice, invece, afferma: «Nell’ambito (…) della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio». Da qui anche la possibilità di regressi morali, in quanto le nuove generazioni possono certamente «attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali» (par. 24).  Non si ha dunque un progresso nella natura umana, essa non può progressivamente liberarsi dai limiti che le sono consustanziali.

Tanto meno l’uomo può sperare che la soluzione della sua esistenza possa prevenirgli dall’esterno, dal mutamento della società. Non che una lotta per una società migliore sia inutile, anzi essa è auspicabile e necessaria, e la politica può contribuire utilmente alla “minimizzazione” del male: soltanto non può distruggerne la radice e  risolvere definitivamente il problema della libertà umana. Qui Benedetto XVI fa propria e, a modo suo, rielabora la critica di quello che Antonio Rosmini chiamava il “perfettismo”: «quel sistema – scriveva il filosofo roveretano – che crede possibile il perfetto delle cose umane e che sacrifica il bene presente alla immaginata futura perfezione». Dice, da parte sua, il Papa: «non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. (…) Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone strutture» (par. 24). 

3. L’idea dell’indefinito progresso morale è un parto della modernità: la critica che ne fa Benedetto XVI comporta, da parte della Chiesa, il ritorno a un atteggiamento polemico verso il mondo e il pensiero moderni, la fine di quell’attenzione ai “segni dei tempi” che fu uno dei portati della svolta conciliare? Da nessuna parte si è parlato con tanta insistenza di “mondo moderno”, “pensiero moderno”, “modernità” come nel mondo cattolico degli ultimi quarant’anni: come osservava Nicola  Matteucci già nel 1970, questa rincorsa è iniziata proprio mentre i laici erano ormai «i primi a non credere più al mondo moderno» e lo consideravano «soltanto un’astrazione ideologica formulata dalla filosofia hegeliana, la quale con il suo immanentismo tolse ogni spazio a un’autentica religiosità. Se si parte da questa astrazione – aggiungeva –  è inevitabile l’incontro con Marx».

Ma il pensiero cattolico post-conciliare aveva le sue ragioni: voleva chiudere il tempo delle contrapposizioni, quello in cui all’astrazione «mondo moderno» si era opposta un’altra astrazione, quella di «cristianità»: il vagheggiamento, cioè, di una società organica, fortemente improntata nelle sue istituzioni civili dalla presenza cattolica, che rinviava a un mitico medio evo da restaurare. Per secoli il pensiero cattolico aveva fatto proprio (rovesciando ovviamente il giudizio di valore) l’albero genealogico che il «pensiero moderno» aveva dato di se stesso: Riforma protestante-Illuminismo-Rivoluzione francese-liberalismo-socialismo-comunismo. Quello che la modernità aveva considerato come un processo di emancipazione, esso lo considerava quale una sequela di tragedie storiche che stava precipitando l’umanità nel baratro. Ne derivava – bisogna sottolinearlo – una presa di distanza anche nei confronti delle stesse istituzioni liberali e dei valori che loro sottostavano (libertà di coscienza, pluralismo religioso, etc.).

Ora di tutto ciò nella Spe salvi non c’è traccia: è da notare, innanzitutto, che Benedetto non “condanna” la modernità, ma la invita a «un’autocritica (…) in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza» (par. 22) e, in questo dialogo, afferma anche l’esigenza di una parallela «autocritica del cristianesimo moderno» (vedremo in quale direzione). Si tratta quindi di un invito ad aprire nuove prospettive, a emendarsi (si potrebbe dire), non a rinnegare se stessa. Ma la «modernità» delineata dal Pontefice non è quella anatemizzata dal cattolicesimo anti-moderno: nella sua riflessione sulla storia moderna, la Riforma non è nemmeno menzionata e Lutero viene citato una volta sola (par. 7) per discutere una sua interpretazione di un passo (decisivo) della Lettera agli Ebrei.

Per Ratzinger la «modernità» ha un altro progenitore, Francesco Bacone: è nel suo pensiero che le «componenti fondamentali del tempo moderno (…) appaiono con particolare chiarezza». Quali sono? 1) Il carattere non più contemplativo, ma strumentale del sapere, per cui l’uomo – attraverso l’esperimento – riesce a conoscere le leggi della natura e a piegarle al suo volere. 2) La trasposizione di questa conquista sul piano teologico: %C3