Le “perle” del beato Karol Wojtyła. Quelle vere
01 Maggio 2011
A coronamento del suo primo pellegrinaggio a Firenze (1985) Giovanni Paolo II apre l’omelia della messa celebrata allo Stadio comunale con l’impressionante domanda di Gesù (Luca 18,8): "Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?". Nella mia memoria lo stadio, meno capiente dell’attuale, era pieno, ma nei giorni precedenti l’attraversamento della città era stato seguito da poche persone; un amico osservò, con un sottinteso polemico e ‘apocalittico’: "Povero Papa!", come a dire: la chiesa si muove ormai nell’irreversibile indifferenza degli uomini. Prendiamone atto.
Evocare l’inquietante brano evangelico, nella certezza delle ‘cose sperate’, ma evocarlo, e farvi fronte era invece il nuovo stile del Vescovo di Roma. Carisma saliente e vittorioso: l’ufficio delle letture della messa per il Beato riprende l’Omelia del 22 ottobre 1978, per l’inizio del pontificato: “Pietro voleva abbandonare Roma. Ma il Signore è intervenuto. Gli è andato incontro [la tradizione del ‘Quo vadis?’]. Pietro tornò a Roma ed è rimasto qui fino alla sua crocifissione”, che, sembra dire il Papa, è quella di allora e quella di oggi.
Nella ‘quarta parte’ del suo testamento (scritta nel febbraio del 1980), accanto alla riflessione sulla Morte e sul Giudizio particolare, leggiamo un accenno alle cose della storia. I tempi sono “indicibilmente difficili e inquieti”, “difficile e tesa anche la via della Chiesa”. Il riferimento è ad “un periodo di persecuzione” più grave delle persecuzioni dei primi secoli, per “spietatezza e odio”. Rilevante è la “causa” che, dice il Papa, “cerco di servire”, ovvero: “la salvezza degli uomini, la salvaguardia della famiglia umana, e in essa di tutte le nazioni e dei popoli”, con un richiamo anche alla Polonia. È l’accettazione, fin da allora, della personale morte (“la Pasqua”) che accende la speranza sui suoi stessi frutti: una Pasqua “utile” alla salvezza dei popoli, delle persone particolarmente affidate al papa, alla chiesa, alla gloria di Dio. L’articolazione del progetto del nuovo Papa è chiara: nella dedizione di sé ciò che si chiede a Dio è d’ottenere, anche nella propria finitezza e morte e quasi in virtù di esse, la salus della famiglia umana. Chi non ha vissuto quegli anni non può sapere quanto implausibili suonassero allora queste parole ai cristiani. Wojtyła ci è stato maestro di plausibilità cattolica.
‘La forza dei martiri e la paura dei cristiani’ è il titolo di un paragrafo del libro, di vasto e ‘giudizioso’ respiro, dedicato da Andrea Riccardi al papa (Giovanni Paolo II. La biografia, 2011). Nell’uomo Wojtyła, e nel santo, il momento martiriale, come testimonianza voluta e come martirio subíto, è dunque essenziale. Obiettivamente travolge, e un po’ ridicolizza, il cristianesimo ‘borghese’ (democrazia, partecipazione, moderazione nella e della chiesa) dei suoi critici; nella visita ad Ali Ağca in carcere il papa non ‘dialoga’, porta e chiede (chiede!) il perdono.
La forza del suo carisma autentico viene da più lontano e ha più spessore della stessa aura, del nuovo rispetto – finalmente, penoso paradosso, anche tra i cattolici – che l’attentato procura alla persona del Pontefice. Incastonato nel terzo segreto di Fatima (“Prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce [il Santo Padre] venne ucciso …”, trascrive suor Lucia) il 13 maggio 1981 apre alla teologia della storia del Novecento. Veri “segni dei tempi”, l’odio della civitas hominum (civitas diaboli) e la protezione della Mediatrice, vengono in collisione. L’azione di Dio conserva e destina una vita, quella di un Papa, ad un compito storico nuovamente all’altezza del suo ufficio. È molto piccolo-borghese la nostra reazione di ‘gusto’ alla visione del proiettile incastonato nella corona della Vergine, o all’ampolla col sangue del papa, che si è deciso di conservare ed esporre alla memoria e al culto. Come ogni reliquia ci ricordano, invece, che il Sacro non si cura nel nostro gradimento; ci sovrasta; è oltre, là, come il sangue di Karol Jósef, il suo addome devastato, la sua obiettiva vicinanza alla morte.
Non so se tutto ciò sia una “perla” di Wojtyła. L’idea di Alberto Melloni di cogliere addirittura “cinque perle” nel pontificato (il recente Le cinque perle di G.P. II, 2011), idea generosa da parte di un critico tagliente di Giovanni Paolo II (Chiesa madre, chiesa matrigna di Melloni è appena del 2004), resta, a mio avviso, al di sotto della realtà, e non tanto per il tono concessivo o la selezione partigiana. Piuttosto, perché ‘premia’ atti del Pontificato che, isolati, possono invece apparire, come apparvero alle ‘sinistre’ non meno che alle ‘destre’, incompleti, secondari, erronei. Se esaminiamo le ‘perle’, torna subito alla mente che ‘a sinistra’ l’assise straordinaria dei Vescovi del 1985 (la prima perla) fu giudicata una decisione tardiva e innocua; l’incontro di Assisi, altra perla, fu giudicato dai progressisti (ne ho precisa memoria) uno scivolone sincretistico, sorprendente in un papa conservatore, o forse sintomatico della sua confusione teologica; le richieste giubilari di perdono furono deprezzate come una manovra, nel suo fondo arrogante o ipocrita; la visita alla Sinagoga creò pochi entusiasmi (l’intelligencija non ama l’ebraismo istituzionale); l’opposizione alla guerra irakena (2003) fu forse l’unica margarita, sempre che sia utile parlare di ‘perle’, che nella cosiddetta “opinione pubblica della chiesa” non abbia corso il rischio paventato in Matteo 7,6.
Le ‘cinque perle’ papali non mi sembrano tali, nel senso che non sono singolarità. Sono atti tra altri non meno potenti ma anche molto diversi; uniti nell’unita della complexio degli ‘opposti’ cattolica, e meglio comprensibili, tutt’altro che appiattiti, nell’intero progetto del pontificato di Giovanni Paolo II. Il Cardinale Bertone (Un cuore grande. Omaggio a Giovanni Paolo II, 2011) attesta la fermezza del Papa nel rendere pubblica, accentuando la propria piena condivisione, la dichiarazione dogmatica Dominus Iesus (agosto del 2000) preparata da Joseph Ratzinger. Vi è ‘perla’ più preziosa, nel successore di Pietro, che saper affermare, alla svolta di millennio, in un isolamento di Roma impressionante, l’unicità e universalità salvifica di Cristo, senza negare l’evento interreligioso di Assisi? Wojtyła fu questa complexio; e questo il Concilio che egli interpreta e prosegue.
Così, atti di governo, politiche, stili pastorali o ascetici, “aperture” e “chiusure” dottrinali e disciplinari, assunti o favoriti da Giovanni Paolo II, sono stati ‘martirio’ anch’essi. Il sangue invisibile di quel martirio, se mi è concessa l’immagine, è conservato oggi nella teca del ministero petrino, che il successore di Wojtyła può mostrare integra, dopo la durezza del certamen, al mondo.
(Tratto da "Settimo Cielo" /L’Espresso Blog)