
L’elogio di Benedetto XVI alla ‘laicità aperta’ dell’America

17 Aprile 2008
“Storicamente non solo i cattolici, ma tutti i credenti hanno qui trovato la libertà di adorare Dio secondo i dettami della loro coscienza, essendo al tempo stesso accettati come parte di una confederazione nella quale ogni individuo ed ogni gruppo può far udire la propria voce. Ora che la Nazione deve affrontare sempre più complesse questioni politiche ed etiche, confido che gli americani potranno trovare nelle loro credenze religiose una fonte preziosa di discernimento ed un’ispirazione per perseguire un dialogo ragionevole, responsabile e rispettoso nello sforzo di edificare una società più umana e più libera”.
Con queste parole Benedetto XVI ha salutato il popolo americano nella sua visita alla Casa Bianca di Washington. Sono parole significative che meriterebbero un’attenta analisi dal punto di vista politologico. In pratica, Benedetto XVI rinvia ad una nozione di ‘laicità aperta’; una laicità che non riduce la questione religiosa ad una subordinata del potere politico e rivendica il primato etico della politica, in un contesto di libertà che non esclude la dimensione religiosa; sarebbe una contraddizione in termini della stessa nozione di libertà. In passato non sono mancati intellettuali cattolici che hanno colto la specificità dell’esperimento statunitense, la sua “eccezionalità” rispetto alle differenti forme di secolarizzazione che hanno coinvolto il mondo occidentale e che hanno accompagnato il difficile cammino della modernità.
Di particolare interesse risulta un saggio di Luigi Sturzo del 1958, nel quale il prete di Caltagirone, esule dal 1940 al 1946 negli USA (l’esilio di Sturzo inizia nell’ottobre del 1924), analizza la Dichiarazione d’Indipendenza delle tredici colonie d’America riunite nel Congresso generale (4 luglio 1776). In questo documento, fa notare Sturzo, i Padri fondatori fanno esplicito riferimento al Creatore, il quale, oltre ad aver creato gli uomini tutti uguali, avrebbe fatto loro dono di determinati diritti inalienabili, quali la vita, la libertà ed il perseguimento della felicità, conferendo in tal modo un’inequivocabile origine cristiana al loro atto di liberazione e di secessione dalla madrepatria. Accanto a tale importantissimo documento, il nostro autore colloca la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino fatta dai rappresentanti del Popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale (1789). Di questo secondo atto egli riporta i primi quattro articoli, evidenziando il fatto che, benché dal punto di vista dell’ordine politico e civile i due documenti si discostino di poco l’uno dall’altro, nella Dichiarazione dei Diritti del Popolo francese, a differenza della Dichiarazione d’Indipendenza dei coloni americani, non ci sarebbe alcun riferimento al Creatore, bensì ci si affiderebbe agli auspici dell’“Essere Supremo”, confessando in tal modo il proprio carattere “a-cristiano”. Egli scrive: “Gli americani non rinunziarono alla fede e l’affermarono; i francesi implicitamente vi rinunziarono e l’offesero, pur parlando gli uni e gli altri della stessa concezione e arrivando alle stesse conclusioni; i primi perciò fissarono le basi dello Stato libero e moderno, s’intende con tutte le difficoltà gli errori e le manchevolezze che la storia registra (pensare alla schiavitù dei neri); i secondi, pur basandosi sugli stessi elementi etico-giuridici, consacrarono una rivoluzione razionalista che dopo poco sboccò in un impero dittatoriale; rivoluzione e impero i quali, implicitamente od esplicitamente, negarono quei diritti così solennemente proclamati”.
Certo, gli Stati Uniti sono un paese enorme, enorme nelle dimensioni geografiche, enorme per le manifestazioni delle differenti prospettive culturali ed antropologiche, in esso possiamo trovare tutto e il contrario di tutto. Nessuno è così ingenuo, tanto meno Benedetto XVI, da non cogliere la problematicità di un simile contesto politico e culturale. Ad ogni modo, in termini di sociologia politica, l’eccezionalità e le conseguenze di tale complessità dell’esperimento americano sono state esposte in modo coerente e sistematico, tra gli altri, da G. Himmelfarb nel libro One Nation, Two Cultures. La storica americana adotta una formula – una Nazione, due culture – che non nega l’unicità della Nazione, ma avanza l’ipotesi che la sorte degli USA sia quella di dover convivere con una profonda scissione culturale. Ciò che caratterizza tale dualismo non sarebbe la contrapposizione tra bianchi e neri, tra democratici e repubblicani, tra lavoratori e capitalisti, bensì due prospettive culturali all’interno di ciascun raggruppamento: da un lato una filosofia della libertà e della sovranità della coscienza sulle ragioni di stato e/o di partito; la coscienza di persone titolari, come recita la Dichiarazione del 1776, in quanto create ad immagine e somiglianza di Dio, di diritti di per sé evidenti, e, dall’altro, una contro-cultura espressa da una filosofia politica che identifica fatalmente il sociale con l’apparato statale e la legge che questo produce con una sorta di “etica pubblica”, neutra ed insapore, nella quale le differenze diventano “indifferenti”.
Come ci fa notare un altro eminente intellettuale statunitense, il filosofo Jude P. Dougherty, nel saggio The Fragility of Democracy, la storia degli Stati Uniti è caratterizzata sin dagli albori da una simile culture war: una tradizione che si rinnova mantenendo saldi i principi del diritto naturale cristianamente inteso ed un sempre cangiante antagonismo il cui nucleo centrale resta la contrapposizione frontale a quei principi. Ebbene, a quale laicità e a quale cultura Benedetto XVI farebbe, dunque, riferimento? Immagino che siano quella laicità e quella cultura che hanno avuto il coraggio di mettere la questione morale in cima alla lista delle priorità pubbliche, che con forza si battono contro l’aborto, che giudicano preoccupante la spregiudicatezza del dogmatismo scientista, che si vergognano dei filmetti e filmacci che Hollywood sforna a ripetizione. Si tratta di una laicità e di una cultura che animano persone che non si imbarazzano del proprio sdegno nei confronti della volgarità di certe manifestazioni della pop-culture, della violenza verbale di certi gruppi gangsta rap. Si tratta di una laicità espressa da milioni di persone che hanno fiducia nel futuro, che fanno ancora figli, che costruiscono scuole ed università senza chiedere un solo dollaro allo stato (For God and the Nation, questo è il motto della Catholic University of America). È la laicità della ownership society; un’interessante espressione che rimanda alla massima di Leone XIII “non tutti proletari, ma tutti proprietari”, specificata da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus del 1991, quando nel paragrafo 42 “riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia”. È la laicità descrittaci da Tocqueville e da Sturzo, una laicità che è sinonimo di libertà, la libertà di cui Benedetto XVI, anche in questi giorni americani, è instancabile testimone.