Lodo Alfano: inutile drammatizzare il giudizio della Corte
18 Settembre 2009
di redazione
Diciamo la verità: se anche la Corte costituzionale dovesse giudicare che il cd. Lodo Alfano è contrario alla Costituzione, vi sarebbero sicuramente ricadute di natura politica – è inevitabile che sia così – ma non sta scritto da nessuna parte che una delle conseguenze consisterebbe nelle dimissioni del Presidente del Consiglio e, quindi, dell’intero Governo.
Non si tratta ovviamente di una conseguenza giuridicamente automatica o dovuta, ma non si tratta nemmeno di una probabile conseguenza politica. Ammesso e non concesso che questo sia l’esito dell’esame della Corte, si tornerebbe a ragionare sostanzialmente di due cose. In generale, si dovrebbe dire che i rapporti tra politica e giustizia tornerebbero a soffrire di uno squilibrio che andrebbe rimediato, possibilmente coinvolgendo tutti coloro che non soffrono delle sindromi giustizialiste o girotondine. In concreto, si dovrebbe osservare che non è stata accettata dalla Corte la scelta del legislatore di stabilire una temporanea sospensione dei processi per reati comuni imputati alle alte cariche politiche dello Stato, in nome del preminente interesse al sereno esercizio del mandato per tutta la sua durata. Più in particolare ancora, si dovrebbe sottolineare che la Corte ha giudicato non conforme a Costituzione la ricaduta “individuale” di questo bilanciamento tra interessi potenzialmente configgenti: ovvero tra l’esigenza dell’imputato di potersi pienamente difendere nel processo e quella di potersi dedicare con tutto l’impegno e il tempo necessari allo svolgimento delle alte funzioni istituzionali conferitegli. La sospensione processuale disposta dal Lodo Alfano ha in effetti, come sottolinea correttamente la memoria dell’Avvocatura, anche questo scopo: impedire che il singolo investito di funzioni politiche rilevantissime sia costretto a scegliere se dedicare tutte le sue energie alla propria difesa in giudizio, ovvero – rinunciando sostanzialmente a questa – a concentrarsi soltanto sul proprio ruolo istituzionale. Il legislatore ha ritenuto parzialmente e temporaneamente prevalente questo secondo interesse, disponendo un provvisorio sacrificio delle esigenze di continuità e speditezza processuali. Non sottrae in assoluto l’alta carica alla sottoposizione alla giurisdizione, ma la rinvia al termine del mandato.
Ora, se questa scelta dovesse cadere per mano della Corte, non per questo è necessario ipotizzare le dimissioni. L’Avvocatura lo fa – nella memoria – considerando che un Presidente del Consiglio che per le proprie necessità di difesa in processo trascurasse le sue funzioni potrebbe essere mal giudicato, e “per sottrarsi alla responsabilità politica senza pregiudicare il suo interesse alla difesa, potrebbe trovarsi anche nella necessità di dare le dimissioni”. Per la verità, è un solo e indiretto accenno, contenuto in una memoria molto lunga e articolata. Ma, come è ovvio, la stampa e i media ci si sono gettati golosamente. Forse è stato un accenno imprudente, perché molti hanno già osservato che esso – debitamente enfatizzato da chi interesse a drammatizzare all’estremo la vicenda – scarica sulla Corte una responsabilità che essa non ha, e potrebbe anche mal disporla e innervosirla.
Resta il fatto che i giochi sono ancora tutti da fare: che vi è un precedente (la sentenza del 2004 sul Lodo Schifani) cui il legislatore ha cercato diligentemente di adeguarsi, che le esigenze poste a base della legge sono state apprezzate dal Capo dello Stato in varie circostanze, che non c’è ragione di attendersi dalla Corte altro che un esame sereno e ragionevole dei vari argomenti in campo.
Se mi posso permettere, osservo che – nella sala d’udienza della Corte – enfasi e sfuriate servono a poco, oppure sono controproducenti. Molto meglio il rigore concettuale, la misura stilistica e la pacatezza argomentativa. Ma è ovviamente superfluo ricordarlo, perchè lo sanno benissimo, all’Avvocatura dello Stato e alla difesa privata del Presidente del Consiglio.