Ma quale lobbying, la Chiesa ammaestra come ha sempre fatto il popolo dei credenti
20 Gennaio 2008
Circola negli atenei italiani un “appello di solidarietà con i colleghi della Sapienza di Roma” (il cui primo firmatario è lo storico torinese Angelo d’Orsi); i 67 (o 60) vengono difesi nella loro opposizione alla partecipazione di un “capo religioso, e nel contempo capo di Stato straniero” all’apertura dell’anno accademico della Sapienza, con questa motivazione aggiuntiva: “tanto più che trattasi di un papa che ha (…) assunto gravi prese di posizione che, mentre smantellano la Chiesa del Vaticano II [cosa che gli estensori pensano di poter affermare con qualche competenza, e giudicano evidentemente una colpa], costituiscono gravi ingerenze nella sfera delle istituzioni politiche nazionali”.
Riflettiamo sull’uso dell’argomento insidiosamente “moderno”, per cui l’affermazione della secolarità della sfera politica è anche protezione della purezza della Chiesa. Esso mette nelle mani dell’autorità politica contemporaneamente la tutela dell’assolutezza della propria giurisdizione e, con un distruttivo eccesso (perché arbitrariamente teologico) di giurisdizione, l’autorità di giudicare se la Chiesa sia conforme al mandato evangelico.
Su questa linea, e premendo sul consueto pedale del suo moralismo, Eugenio Scalfari è venuto in aiuto prima di Walter Veltroni, ora dei professori della Sapienza, con una scomposta polemica antiecclesiastica (Repubblica, 13 gennaio, e interventi televisivi di questi giorni). Scriveva Scalfari che “la gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente (!) viene definito il Magistero si sono da tempo e sempre più trasformati in una “lobby” che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall’attività pastorale e dall’approfondimento culturale”; il popolo di Dio (forse quello dei salons romani) soffrirebbe di questa trasformazione” e si adatterebbe per imitazione a “compromessi e patteggiamenti”. Poche righe sopra aveva scritto, e ripete in questi giorni: “Al di là della palese inconsistenza politica e culturale di papa Ratzinger ecc.”, frasi indecorose anzitutto per l’intelligenza di Scalfari. Non riesce neppure a sospettare che la Chiesa deve ammaestrare il suo “popolo” – che è obiettivamente quello composto da ogni uomo che sulla terra “non può non dirsi cristiano” – e che a questo popolo essa deve indicare, ratione peccati, e richiedere condotte conseguenti al diritto naturale (cristiano).
Ma questa prosa conferma il disorientamento, anzitutto diagnostico, dell’intelligencija per il vigore critico della Chiesa italiana, e della Santa Sede. I commentatori si rifugiano nel definire lobbying, in (impropria) accezione deteriore, quel parlare ad alta voce della gerarchia secondo il suo mandato. Settimane fa un battagliero ecclesiasticista ha deprecato questo fare lobby della Chiesa italiana come una novità negativa della sua storia e, naturalmente, alla lunga perdente. Ha opposto il lobbying alla silenziosa ma in compenso effettiva funzione di pilastro (il classico pillar) o fondamento della società italiana esercitata in passato dalla Chiesa cattolica. Fa sorridere che il critico laico, di vecchia o giovane generazione, ricorra all’argomento di una pillarizzazione buona, o di un buon “Popolo di Dio”, d’altri tempi. Questa contrapposizione inattendibile tra un buon passato della Chiesa in Italia e un presente degrado imita, con altre categorie, la contrapposizione di moda tra la mediazione politica democristiana d’antan (che appare oggi così laica, dopo essere stava fieramente avversata per decenni come clericale) e l’attuale diretto protagonismo della gerarchia. Le citazioni da Pietro Scoppola si sprecano, come si dice, specialmente in Scalfari. Ma lo sguardo diagnostico del Professore, capace di sostenere nel 2001 che la Chiesa (la Chiesa di papa Wojtyla!) era “lontana dal compito di offrire ad una società inquieta (…) motivi di fiducia, di speranza, di coesione” (attingo dalla cit. di Scalfari), appare uno sguardo che non discerne già più la portata degli eventi.
Dal 1993 è disponibile (nella collana “Arcana Imperii” dell’editore Giuffrè, a lungo diretta da Miglio), La rappresentanza degli interessi organizzati, un grande libro di Joseph Gianfranco H.Kaiser, giuspubblicista ed ecclesiasticista tedesco che anche i filosofi della politica conoscono bene. Per Kaiser (che scriveva negli anni Cinquanta) l’influenza pubblica, l’auctoritas, della Chiesa, in quanto istituzione fondata sul corpo mistico e istituto di salvezza, “non è mai l’effetto di un intervento o della presa di parte, bensì è sempre lo svolgimento della sua potestas indirecta” (seguo le comode formulazioni del curatore, il costituzionalista Stelio Mangiameli). Difficilmente lo Stato potrebbe affermare di subire sul piano della politica (del potere temporale) la concorrenza della Chiesa: la manifestazione pubblica della responsabilità salvifica di quest’ultima non ha nulla in comune con le funzioni dello Stato; aggiungerei: se lo Stato entra in collisione questo avviene, piuttosto, perché si arroga compiti salutari-salvifici che non gli appartengono. Per Joseph Kaiser la Chiesa istituzione, nella sua autonomia ossia perfezione giuridica, risulta inoltre dotata di una “capacità vicaria” o subsidium, di una funzione di rappresentanza politica che le consente nei momenti particolari di una società, “quando gli organi statali falliscono, di porsi quale interlocutore politico a garanzia della comunità, nei procedimenti istituzionali di intermediazione interni ed esterni”. Questa era già la funzione dei vescovi nel sistema antico di cristianità.
Anche il laicato (politico) cattolico sembra aver dimenticato questo aspetto sia storico che dottrinale della Civitas Dei itinerante. La funzione dei partiti cattolici tra modernizzazioni e secolarizzazioni vien studiata più per sottolinearne la natura di espressione nuova del “laicato” cristiano, che non il suo rapporto con la sollecitudine e la potestas della Chiesa docente rispetto a poteri e ordinamenti. Ma è certo che né i partiti cattolici, né i laicati organizzati nati nella modernità secolare, possono sostituirsi alle funzioni gerarchiche (dei vescovi o dei pontefici) pubbliche, e che resta la chiesa docens l’istanza giudicante della opportunità di atti diretti di indirizzo (comunque di esercizio di una potestà costitutivamente indiretta) nei confronti dello stato.
L’opposizione tra immersione sociale (e cura spirituale) da un lato, e peculiare azione “politica”, dall’altro, dell’autorità ecclesiastica è dunque erronea, quali che siano le ragioni (interne ed esterne, cattoliche e laiche) per cui la si afferma. Falsa l’implicazione per cui o si dà l’una forma o l’altra (o politica o spirituale), quasi che pubblico e privato non si implicassero in ogni corpo sociale vivente, capace di Rappresentanza. Illusorie le speranze (anticattoliche o antiromane) che vi si fondano.