Madre Teresa, santa scomoda per il “pensiero unico” del progressismo relativista
05 Settembre 2016
Madre Teresa di Calcutta, proclamata santa domenica 4 settembre 2016 da Papa Francesco, è stata senza dubbio una delle più importanti personalità nella storia mondiale del secondo dopoguerra. Nata in Albania all’inizio del Novecento, dopo un “convenzionale” apprendistato di suora scelse di dedicare interamente la sua vita ad assistere “i più poveri tra i poveri”, ammalati ed emarginati rifiutati da tutti, nell’India da poco indipendente, dove la miseria diffusa e il persistente sistema castale generavano situazioni di inimmaginabile degradazione della persona umana.
Con la fondazione delle suore Missionarie della Carità in molti decenni di attività Teresa ha costruito, esclusivamente grazie al suo entusiasmo e alla generosità delle donazioni, una delle strutture più imponenti ed efficaci nella lotta alla miseria e al sottosviluppo, ottenendo risultati incredibili se paragonati all’inefficienza, alla corruzione e alla dispersione degli aiuti allo sviluppo messi in piedi dagli Stati e dalle grandi organizzazioni internazionali. Ha accolto milioni e milioni di “ultimi”, di disperati, di indesiderati, dando loro una casa e facendoli sentire amati e rispettati, prima ancora che alleviando le loro sofferenze materiali.
Con la sua opera, la suora albanese naturalizzata indiana ha ricordato a tutto il mondo che per combattere la malattia, la sofferenza e il bisogno non servono le enormi strutture burocratiche, i funzionari, gli ambiziosi programmi governativi, le ideologie e le tecnocrazie che pretendono di cancellare la povertà grazie a programmi “scientifici” miracolosi. Occorrono, al contrario, prima di tutto la fede e la disponibilità a farsi carico della sofferenza altrui, intorno a cui è possibile poi convogliare gli sforzi di chi vuole e le competenze di chi sa.
E’ questo il “segreto” di Madre Teresa. Un segreto per modo di dire, perché non è altro che la concezione cristiana della vita, l’idea che l’umanità non si salva con le parole e le teorie, ma operando concretamente per migliorare le condizioni di vita del “prossimo”, cioè di quanti incontriamo sul nostro cammino. Madre Teresa ha ricordato al mondo, con la sua vita e il suo umile lavoro, che grazie a questa forma mentis in due millenni i cristiani hanno costruito l’Europa, l’hanno resa grande, hanno creato società forti e unite, fondate su una solidarietà e su una misericordia che riuscivano ad alleviare anche i più mortali conflitti, e a garantire la continuità culturale dei popoli attraverso le generazioni.
Ha ricordato al mondo, nel caso esso lo avesse dimenticato, che è stato il cristianesimo ad inventare gli ospedali, la sanità pubblica, l’assistenza sociale, molto prima di quanto poi abbiano fatto gli artefici del “welfare state” paternalistico-autoritario di Stato o socialista. Che è stato il cristianesimo – attraverso soprattutto gli ordini religiosi, i frati, le suore, le donazioni da parte di ricchi peccatori desiderosi di perdono – a introdurre nella storia umana il concetto stesso della misericordia per l’essere umano indifeso e sofferente: laddove sia nella civiltà greco-romana sia in quelle germaniche e slave ancora regnava sovrana l’idea che gli esseri inabili e svantaggiati fossero soltanto un peso, e che dovessero/potessero essere eliminati, o abbandonati a se stessi, per mantenere la “forza vitale” della società.
Un’idea che, peraltro, si è riaffermata, contro il cristianesimo, in Europa e nel mondo occidentalizzato proprio a partire dall’avvento delle ideologie, con la loro visione del mondo strutturata sull’asse amico/nemico, per cui a chi sta dall’altra parte della barricata ideologica, di classe o di partito, o a chi non rientra nel progetto della società futura, non viene riconosciuta un’autentica dignità di essere umano. E che ancora oggi continua a dominare quasi ovunque nelle società non cristiane, da quelle dell’estremo Oriente asiatico a quelle islamiche, a quelle dell’Africa animista. Per questo motivo, Teresa è stata una personalità molto scomoda per la cultura del progressismo laicista, del modernismo tecnocratico, dell’umanitarismo secolarizzato che, in varie forme, ha costituito dal dopoguerra ad oggi una parte rilevante delle classi dirigenti dei paesi occidentali.
E infatti intellettuali e politici paladini di una versione post-giacobina, ipersoggettivista e relativista dei “diritti”, o di una visione burocratico statalista del benessere sociale hanno sempre avuto verso di lei un atteggiamento imbarazzato e ambiguo. Si sono associati, spesso, alla celebrazione della sua opera, non potendone negare la grandezza. Ma lo hanno fatto a mezza bocca, tra mille distinguo, con i toni ipocriti del fariseismo e con un malcelato senso di superiorità.
Quando non hanno tentato di sminuirne i meriti, o addirittura di insinuare l’infamante sospetto che la religiosa avesse costruito sulla sua opera assitenziale un grande business economico, traendone profitto. Questa ostilità sorda di fondo, questa tenace volontà di sconnettere la poderosa missione di Teresa dalla linfa cristiana dalla quale direttamente deriva, è proprio il frutto della oscura consapevolezza che una minuscola, inerme donna da sola, grazie alla sua fede contadina tenace e testarda ha messo in crisi due secoli e mezzo di pomposa superbia delle culture irreligiose o antireligiose che hanno insistito continuamente (e insistono ancora) a considerare il cristianesimo un fenomeno premoderno, residuale, retrivo, destinato a scomparire con l’avvento di questo o quel “sol dell’avvenire”, di questa o quella infallibile ricetta per produrre il paradiso su questa terra.
Soprattutto, Madre Teresa suscita ostilità in quelle classi dirigenti perché ha sostenuto credibilmente, con la forza dei fatti, anche nelle civiltà industriali avanzate e globalizzate l’idea che l’essere umano possiede una dignità e un valore infiniti in ogni momento della sua esistenza, dal concepimento alla morte naturale, e che in ogni stadio – particolarmente quando è nelle condizioni della più assoluta debolezza – esso deve essere considerato sacro e curato amorevolmente, evidenziando sempre la scintilla divina che è infusa in lui dal Creatore, riconoscendo proprio in lui il Cristo sofferente per l’umanità.
Forte di questa salda fondazione nella concezione cristiana dell’unicità e irripetibilità di ogni vita individuale, Teresa ha condannato in tutte le sedi possibili, compresa quella più prestigiosa come la platea del premio Nobel da lei conseguito nel 1979, la pratica dell’aborto, che invece nelle culture liberal-progressiste occidentali è stata legalizzata spacciandola come una conquista di “diritti” delle donne.
Con la stessa severità ha condannato il divorzio, additando lo sfascio delle famiglie come prima causa di disgregazione della società, da cui nasce una povertà che per lei non è solo quella materiale, ma anche e principalmente quella spirituale data dalla solitudine, dall’abbandono, dall’individualismo materialista. E con la speciale attenzione da lei riservata ai moribondi e ai malati incurabili ha dimostrato anche eloquentemente la disumanità della propaganda a favore dell’eutanasia: dipinta dai suoi fautori come sollecitudine umanitaria verso i sofferenti, ma in realtà ispirata dalla preoccupazione di liberare la società dalla zavorra delle vite “inutili”.
Insomma Teresa è stata, con le parole e con l’azione, una nemica irriducibile di quella che Papa Francesco ha definito “la cultura dello scarto”: la concezione, diffusa ormai nelle società occidentali industrializzate e consumistiche sempre più scristianizzate, secondo cui esistono di fatto vite degne e indegne di essere vissute, e qualcuno per investitura del potere vigente possiede il diritto di manipolare impunemente le esistenze dei soggetti “politicamente” deboli.
Ecco il motivo per cui la canonizzazione di Teresa viene accolta dal mondo del progressismo laicista con una smorfia di circostanza e di distacco, dietro la quale si annida il rancore per il consolidamento di un modello umano specularmente alternativo, insieme a quello incarnato dal grande protettore e mentore di Teresa, San Giovanni Paolo II, al dominio delle nuove forme di ideologia affermatesi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, sintetizzabili nell’“assolutismo relativista” canonizzato dall’ortodossia del politically correct.
Ma, proprio per lo stesso motivo, la voce di Teresa promette di risuonare con sempre maggiore forza profetica, oggi e nei tempi a venire.