
Per salvare il referendum, il quorum va ancorato alle politiche

12 Giugno 2025
Come era ampiamente prevedibile, anche i referendum per i quali abbiamo votato domenica e lunedì scorso non hanno raggiunto il quorum di validità. Se si escludono i referendum sull’acqua pubblica del 2011 è dal 1995 che le consultazioni referendarie affondano sullo scoglio del mancato raggiungimento del quorum. Si tratta di un dato consolidato e sul quale è opportuno fare una riflessione.
La prima cosa da osservare che in molti casi abbiamo assistito ad un uso del tutto strumentale del referendum che da strumento di democrazia diretta finalizzato a consentire all’elettorato di esprimere la propria volontà in merito a quelle situazioni sulle quali gli stessi rappresentanti degli elettori non apparivano in grado di farlo, sembra essersi ridotto ad un mero strumento di lotta politica utilizzato da alcuni partiti (normalmente d’opposizione) nella speranza di infliggere una sconfitta ai propria avversari politici.
L’idea, autorevolmente espressa, che i referendum sarebbero stati una vittoria per la sinistra qualora il numero dei votanti fosse stata superiore alla somma dei voti presi dalle forze politiche che compongono l’attuale maggioranza alle ultime elezioni politiche è la sublimazione si questo approccio sbagliato. In primo luogo il confronto con il numero dei voti delle politiche andrebbe fatto non con il numero dei votanti (a prescindere se a favore o contro) ma con il numero di SI al referendum. Infatti chi si è recato alle urne per votare NO ai quesiti referendari potrebbe essere tranquillamente un elettore di centro-destra che nonostante l’appello all’astensione del suo partito a deciso di votare per esprimere la sua opinione.
Ma più in generale occorre dire che un ragionamento del genere stravolge completamente la logica dei referendum. I referendum non sono uno strumento per misurare lo stato dei rapporti di forza fra i diversi partiti presenti in Parlamento ma sono uno strumento per chiedere direttamente al popolo di esprimersi saltando il confronto e la dialettica fra i partiti. Il referendum si vince solo se è valido e se il numero di SI supera quello dei NO.
Un’altra riflessione da fare riguarda il tasso di partecipazione al voto. Ormai la media dell’affluenza al voto per i referendum si aggira sul 30%, anche perché coloro che si oppongono al quesito referendario normalmente fanno campagna per l’astensione, nella certezza che in questo modo la norma oggetto di referendum non sarà abrogata. Si tratta di un atteggiamento che è stato accusato di scorrettezza ma che è del tutto comprensibile considerate le condizioni attuali.
Il dato però non deve stupire se la percentuale dei votanti ai referendum è così bassa occorre valutarla alla luce del generale partecipazione elettorale che, e ormai si tratta di un dato consolidato, è molto più bassa di quella che era fino a qualche decennio fa. Oggi alle elezioni politiche va a votare poco più del 60% degli aventi diritto ed è pertanto chiaro che, soprattutto con una campagna a favore dell’astensione, i referendum abrogativi non hanno alcuna possibilità di andare in porto.
A questo punto due sono le strade. O riteniamo che il referendum abrogativo sia un istituto ormai obsoleto e quindi tanto vale eliminarlo dal nostro ordinamento. Oppure, riteniamo che si tratti di un istituto della democrazia diretta ancora valido ed utile e pertanto dovremmo apportare alcune modifiche che consentano ai referendum di essere validi. La mia idea è che oggi il referendum abrogativo mantenga una sua utilità. Nella storia d’Italia si è trattato di uno strumento fondamentale dal quale sono passate modifiche degli indirizzi politici di importanza capitale. Basti pensare al referendum sul divorzio, al referendum sull’aborto, ai referendum sulla legge elettorale.
Certo questi referendum si sono svolti in un quadro politico radicalmente diverso da quello attuale. Un quadro politico caratterizzato da una staticità assoluta che impediva al Parlamento di farsi portatore delle dinamiche politiche e culturali dell’opinione pubblica. E fu proprio grazie a un referendum, il referendum sulla legge elettorale del Senato promosso da Mario segni che la storia della nostra Repubblica è cambiata e abbiamo, con la nuova legge elettorale, avviato la transazione transizione verso la seconda Repubblica. Oggi il quadro è diverso. Ci troviamo in un (certo assai imperfetto) sistema maggioritario in cui la maggioranza si confronta con un’opposizione che si candida ad essere maggioranza alle prossime elezioni. Ma non di meno, credo che il referendum mantenga una sua validità come pungolo per il governo e la maggioranza parlamentare ad essere attenti alla sensibilità del corpo elettorale.
Se questo è vero è chiaro che diventa necessario modificare la norma costituzionale sul quorum di validità. Un’ipotesi potrebbe essere quella di prevedere un quorum mobile di validità. Il quorum di validità del referendum potrebbe essere fissato al 50% +1 dei voti espressi alle precedenti politiche.
Semmai una modifica del genere potrebbe essere accompagnata da un innalzamento del numero delle firme necessario perché sia indetto il referendum, considerato oggi, rispetto ai tempi della raccolta delle firme ai banchetti per strada, è stata prevista la possibilità di firmare digitalmente via internet e questo ha reso molto più agevole raggiungere il numero di sottoscrizioni necessarie. Sarebbe questo un modo per ridurre i rischi di un uso demagogico e populista dall’istituto da parte di gruppi e forze poco presenti nel Paese ma molto attive nell’agitare le proprie idee sulla rete.
E forse così il referendum potrebbe tornare a svolgere quella funzione positiva che ha svolto nella nostra storia.