Per Scola la scienza senza etica si arrende al nichilismo
17 Luglio 2007
E’ facile immaginare
l’insofferenza con la quale alcuni (speriamo non molti) scienziati avranno
reagito al discorso che il Patriarca di Venezia ha tenuto, come ogni anno, in
occasione della festa del Redentore. I più benevoli avranno pensato che è
singolare l’attenzione rivolta da un prelato alla scienza e più in particolare
alle neuroscienze e troveranno qualche difficoltà a inquadrarla in quella cura
delle anime, che dovrebbe ovviamente essere il compito preminente di un
pastore. Altri riterranno invece che questo discorso si inquadra in una
strategia di attacco alla ricerca scientifica che la Chiesa italiana avrebbe
attivato da tempo. Di qui, il passo ad affermare che si tratta non solo di un
discorso epistemologicamente vano, ma politicamente inaccettabile può essere
brevissimo. Una breve riflessione al riguardo, quindi, si impone.
Di che cosa propriamente ha
parlato il Card. Scola? Di scienza, evidentemente.
Ma parlando di scienza, ha parlato nello stesso tempo dell’uomo e della sua
anima. E’ evidente che in questo discorso viene istituito un nodo strettissimo
tra l’antropologia e la comprensione scientifica del mondo, senza ridurre la prima alla seconda. Per
alcuni (speriamo non molti) scienziati riconoscere questo nodo è
metodologicamente inammissibile: ne andrebbe della scienza stessa. Per un
pastore come Scola, però, è esattamente il contrario: se lo si nega, non solo
si fa violenza alla ragione (che è dimensione ben più ampia e complessa di come
gli scienziati non tendano a presentarla), ma si fa violenza allo stesso
annuncio cristiano. Non che questo annuncio abbia contenuti materialmente
scientifici (solo qualche ingenuo lettore fondamentalista della Bibbia può
crederlo); ma è un annuncio che contiene intrinsecamente il messaggio per
l’uomo di aprirsi fiduciosamente alla
comprensione del mondo. Il mondo infatti è buono
(perché creato da un Dio buono), è conoscibile
(perché Dio, in quanto buono, non ha creato un mondo esoterico ed occulto), è affidato alla responsabilità dell’uomo
come suo ambito di vita. Chi conosce un po’ di filosofia cristiana, comprende
benissimo perché la tradizione cattolica abbia reagito duramente alla
distruzione luterana della categoria della “legge naturale”: se questa legge
non esiste o se comunque non è attingibile da parte dell’uomo, non può che
essere vano ogni tentativo per l’uomo stesso di rapportarsi positivamente al
mondo in cui vive e a tutte le scienze che lo analizzano e lo studiano. Di qui
l’essenziale indifferenza del protestantesimo nei confronti dei problemi
epistemologici che più inquietano l’uomo d’oggi e nei confronti delle loro
ricadute in ambito morale (si pensi in particolare alla bioetica); di qui
–all’opposto- il lavorare della Chiesa cattolica in questo ambito, non per
dettare estrinseci imperativi agli scienziati, ma per ricordare continuamente
loro che lo sguardo della scienza è circoscritto
e non può pretendere di negare né l’esigenza di uno sguardo globale (come
quello dell’antropologia filosofica e teologica) né l’autenticità e il rilievo
epistemologico di questa esigenza.
Ne segue che nel momento in cui
il Card. Scola accoglie la sfida delle
neuroscienze, nel momento in cui insiste nel mostrare la differenza di
principio che esiste tra l’anima e il
cervello, opera non solo a nome –per
dir così- della fede cristiana, ma della comune
ragione umana. Dove “comune” non sta ad indicare la ragione degli uomini
semplici (peraltro rispettabilissima!), quanto piuttosto la capacità accomunante della ragione di tenere
insieme tutti gli interrogativi che
l’uomo –da sempre- si è posto su se stesso, sul mondo in cui vive,
sull’universo e sul suo senso. La domanda: ma
io chi sono?, la domanda che secondo Comte (e secondo tanti scientisti) non si dovrebbe mai porre, Scola la
ripropone con forza all’inizio del suo discorso, come la domanda epistemologica
fondamentale. Se infatti la si rifiuta, si restringono indebitamente gli
orizzonti del conoscibile (e soprattutto si arriva a negare la conoscibilità etica del mondo) e si giunge ad una
sorta di inevitabile resa aprioristica dell’intelletto umano nei confronti
della complessità della realtà. E quando l’intelletto abdica dalle sue
funzioni, il vuoto che ne risulta viene prima o poi colmato dalle istanze della
volontà: se non posso conoscere eticamente il mondo, posso infatti pur sempre
volerlo modificare a mio piacimento, per assecondare i miei interessi; tutto
dipende dalla forza che ho e che voglio usare, nella certezza della
insindacabilità delle mie volizioni (se si vuole, questo è l’orizzonte del nichilismo,
nei cui confronti nessun appello ai meriti conoscitivi della scienza potrà mai
avere consistenza). Ben diversi gli
esiti, se, invece di rimuoverla, si accetta fino in fondo la portata della
domanda fondamentale: ma io chi sono? Non
basta, naturalmente, porsi questa domanda per giungere a possedere una chiave
magicamente in grado di aprire tutte le porte o di fornirci una risposta
convincente a tutti i nostri interrogativi: chi se la pone, si pone però nella condizione
di rapportarsi al mondo come soggetto. Qui
si racchiude il nocciolo duro della dignità
della persona, dignità –ancora una volta!- che i cristiani non rivendicano
per se stessi, ma per tutti gli uomini e nella stessa misura per tutti.
Leggendo il testo del Cardinale, percepiamo come il tema della dignità, che
poteva apparire scontato, fino a qualche tempo fa, oggi va invece rivendicato
pazientemente, non come un apriori spiritualistico o religioso, ma come il
portato necessario di una conoscenza adeguata del mondo. E’ per questo che si
può dire che l’ispirazione che sorregge il discorso per la Festa del Redentore
è antropologica perché è evangelica (e viceversa) e che, con questo discorso,
il Cardinale ci ha dato un esempio chiarissimo di cosa intendesse davvero
Kierkegaard, quando parlava di esercizio
del cristianesimo.