Quel maggioritario a doppio turno che serve a Meloni per dare la svolta istituzionale
21 Novembre 2023
Una cosa certo non si può dire del nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Che le manchi il coraggio. E così oggi, a poco più di un anno dall’avvio del suo governo, osa sfidare il tabù della politica italiana. Un tabù affrontato da alcuni dei migliori statisti della nostra storia, da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi, a Matteo Renzi, che tutti però sono stati sconfitti e hanno fallito nell’impresa. Il tabù è quello della “Grande Riforma” ovvero della modifica della forma di governo del nostro sistema attraverso una modifica della Costituzione del 1948. E così il Governo ha presentato alle camere in questi giorni il proprio disegno di legge “Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”.
Dal nostro punto di vista la cosa è estremamente positiva perché siamo convinti che l’Italia ha un disperato bisogno di un aggiornamento della propria carta fondamentale diretto da un lato ad adeguarne l’impianto alle modifiche ed all’evoluzione del sistema che si è realizzata in questi 65 anni e dall’altro a consolidare il passaggio della nostra democrazia verso un sistema di democrazia maggioritaria e decidente secondo i modelli diffusi in tutte le democrazie europee più avanzate. L’obiettivo è quello di dare vita compiutamente e finalmente alla Seconda Repubblica, atteso che dal 1994 ci siamo illusi di averla avviata, ma, in realtà, dopo il crollo della Prima Repubblica abbiamo dato vita ad un sistema debole, confuso e inefficiente che è in realtà un ircocervo fra una democrazia assembleare ed una democrazia governante.
Naturalmente, fatta questa doverosa premessa il discorso si sposta sull’analisi del testo predisposto dal Governo, sulla valutazione della sua efficacia nel raggiungere gli obiettivi perseguiti. La scelta fondamentale, quella dell’elezione diretta da parte del corpo elettorale del Presidente del Consiglio, viene da alcuni contestata perché determinerebbe una deriva autoritaria e plebiscitaria della nostra democrazia. L’obiezione non sembra fondata perché, come del resto dimostra l’esperienza positiva di alcune tra le più solide democrazie del mondo, l’elezione diretta del Capo dell’Esecutivo determina un’esaltazione delle caratteristiche fondamentali del processo democratico perché àncora in modo stretto l’assetto del governo agli orientamenti del corpo elettorale e quindi rafforza il carattere democratico del sistema.
Inoltre una soluzione del genere avrebbe conseguenze particolarmente positive nell’attuale contesto storico caratterizzato da una crisi strutturale dei partiti di massa, sempre meno capaci di organizzare e veicolare le opinioni degli elettori. Una fase caratterizzata da preoccupanti fenomeni di demagogia, populismo e anti- politica che possono mettere in crisi il fragile edificio della democrazia parlamentare. Non v’è dubbio, infatti, che con l’elezione diretta si determina un fenomeno di concentrazione e di verticalizzazione del processo democratico, fenomeno che contrasta le dinamiche di dispersione e disaffezione con cui abbiano a che fare. In assenza di partiti strutturati, portatori di sistemi di valori e visioni del mondo forti e nette, in grado di connotare tutto il confronto politico pubblico, concentrarsi sulla scelta di una singola persona, con le idee, le caratteristiche e le qualità di cui è portatore, può risultare utile perché aumenta la significatività di un atto, il voto, che altrimenti oggi rischia di risultare poco sensato.
Ma vi è di più. Con l’elezione diretta, inevitabilmente legata ad un sistema a doppio turno, si determina anche una positiva spinta verso la moderazione e l’equilibrio delle proposte politiche. Con un sistema a ballottaggio fra i primi due arrivati al primo turno non c’è dubbio che le posizioni più estremiste, populiste e demagogiche sono messe fuori gioco perché presumibilmente non saranno mai in grado di conquistare il consenso del 50 per cento più uno degli elettori. La scelta particolare del Governo è quella di proporre un sistema di premierato elettivo anziché di semi-presidenzialismo. Si prevede, infatti, l’elezione diretta non del Presidente della Repubblica ma del Presidente del Consiglio, lasciando immutate le regole per la nomina del nostro Capo dello Stato.
Si tratta in effetti di una scelta un po’ originale, atteso quasi tutti i paesi che prevedono l’elezione diretta del vertice delle istituzioni prevedono l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. L’unico Paese in cui veniva eletto direttamente il Presidente del Consiglio era Israele, che peraltro adottò tale sistema nel 1992, nella speranza di ridurre la frammentazione partitica e l’ingovernabilità, e poi dopo 5 anni, visti i risultati deludenti, lo ha abolito. Anche questa scelta ha determinato diverse critiche e perplessità. In effetti non appare molto chiara la ragione che ha indotto il Governo, nel momento in cui ha deciso di imboccare la strada dell’elezione diretta, a discostarsi dei modelli stranieri che prevedono tale opzione.
Peraltro le obiezioni avanzate non sembrano particolarmente pertinenti. La critica più netta riguarda la lesione che tale scelta determinerebbe nel ruolo e nelle funzioni del Presidente della Repubblica che verrebbe marginalizzato dal Premier forte del suffragio popolare. In realtà, tale critica non appare del tutto fondata, atteso che tutte le funzioni che oggi ricopre il Capo dello Stato verrebbero conservate tranne, inevitabilmente, quella di scegliere la persona a cui conferire l’incarico di formare il Governo. Ma è chiaro già oggi tale prerogativa ha un valore più formale che sostanziale in tutti i casi in cui la dinamica politica è in grado di esprimere un chiaro e solido indirizzo politico.
In questi casi, al Presidente non resta che prendere atto della volontà della politica e nominare chi gli viene indicato dalle forze politiche maggioritarie. La prerogativa si riespande ed acquista valore sostanziale solo nei casi di stallo della politica, di incapacità a trovare un’intesa di maggioranza. In quei casi entra in gioco il motore di riserva, quello del Presidente della Repubblica. Ma è evidente che uno degli obietti della riforma proposta dal Governo è proprio quello di evitare che per il futuro si possano verificare situazioni del genere, che del resto appartengono alla patologia e non alla fisiologia del processo democratico.
Un’altra critica riguarda il fatto che con l’elezione diretta del premier si corre il rischio di determinare un significativo aumento dei rischi di conflitto istituzionale fra i due presidenti. Ma anche questa obiezione non appare del tutto fondata atteso che il ritaglio delle competenze fra i due esclude che vi siano sovrapposizioni che possono ingenerare conflitti istituzionali. Ed allora conflitti potrebbero nascere solo dallo scontro fra le personalità dei due presidenti, che peraltro si sarebbero potuti verificare anche in questi anni a prescindere dall’elezione diretta. Ma la politica italiana ha in questi 75 anni dimostrata la lucidità e l’intelligenza di scegliere sempre per l’incarico di Presidente della Repubblica persone dotate di notevole equilibrio, moderazione e buon senso. Ed i conflitti non si sono verificati.
Tutto bene, dunque? Non esattamente. Ci sono due aspetti del disegno di legge approvato dal Governo che ci suscitano perplessità. Il primo riguarda quell’arzigogolata norma anti-ribaltone contenuta nel testo. Si tratta di una norma singolare, che non ha eguali in nessuna costituzione del mondo, che vincola le scelte dei parlamentari che possono decidere di sfiduciare il premier eletto e di dare la fiducia ad un altro se e solo se il nuovo premier appartiene ad una delle forze politiche che si sono presentate all’elezioni in collegamento con il presidente del consiglio eletto e che per questo hanno beneficiato del premio di maggioranza. L’obiettivo della norma è chiaro impedire che nel corso della legislatura possano aver luogo ribaltoni e giochi di palazzo che finiscano per definire un assetto politico diverso da quello scelto dal corpo elettorale. Viene però da chiedersi se il medesimo obiettivo non poteva essere raggiunto in modo più semplice e lineare senza costituire una camicia di forza che finisce per ingessare la dialettica politica fra i gruppi, che rappresenta uno dei capisaldi della democrazia parlamentare.
Sarebbe bastato prevedere che il Presidente del Consiglio avesse il potere di scioglimento delle Camere come accade pacificamente nelle principali democrazie nelle quali la pratica dei ribaltoni è del tutta sconosciuta ed i governi godono di un’eccellente stabilità, durano più o meno per l’intera legislatura. E invece no, al premier non viene riconosciuta questa facoltà che invece, curiosamente viene attribuita al Presidente del consiglio a lui subentrante. Si tratta di una scelta incomprensibile considerato che il primo Presidente del Consiglio, forte dell’investitura popolare, ha sicuramente una forza politica maggiore rispetto agli altri e quindi sarebbe naturale riconoscere proprio a lui il potere di scioglimento. Ma la scelta operata dal testo rischia anche paradossalmente di costituire un incentivo alla pratica dei ribaltoni, perché potrebbe rappresentare un incentivo per alcune forze della maggioranza a brigare per disarcionare il premier eletto e sostituirlo con uno maggiormente gradito che a quel punto, forte del potere di scioglimento avrebbe una maggiore stabilità. Certo, si potrebbe trattare solo di ribaltoni all’interno del perimetro della coalizione di partiti presentatasi alle elezioni. Se vogliamo possiamo chiamarli “ribaltini”, ma comunque non si tratta di scenari politicamente positivi.
Ma il punto più debole del disegno riformatore predisposto dal Governo è rappresentato dalla previsione in materia di legge elettorale, che prevede un premio di maggioranza del 55% a favore della coalizione di partiti collegata al candidato premier che risulta eletto. In primo luogo è singolare il fatto che sia la Costituzione a determinare direttamente i principi fondamentali ai quali dovrà ispirarsi la disciplina delle elezioni politiche che naturalmente dovrà essere adottata con legge ordinaria. E’ ovvio che la costruzione di un regime semipresidenziale o di premierato elettivo richiede che all’elezione diretta del Presidente (della Repubblica o del Consiglio) corrisponda l’adozione di un meccanismo elettorale idoneo a garantirgli, normalmente, una solida maggioranza parlamentare. Il sistema altrimenti rischia di impallarsi come del resto dimostra la storia di Israele dove l’elezione diretta del premier si accompagnava una legge elettorale proporzionale, venendosi così a determinare quella situazione di ingovernabilità che ha condotto nel 2008 all’abolizione dell’elezione diretta. Questo non vuole però dire che necessariamente i principi della legislazione elettorale debbano essere sanciti in Costituzione. Come dimostra il caso della Francia, il più solido modello di semipresidenzialismo del mondo, la cui Costituzione, anche dopo l’adozione del nuovo testo nel 1958, non contiene alcuna disposizione sulla legge elettorale.
Ma la vera criticità del testo del Governo non sta nella natura costituzionale delle previsioni in materia elettorale ma sta nel merito del testo. La proposta del Governo nei fatti determina una costituzionalizzazione del porcellum, la legge elettorale del 2006 che prevedeva un premio di maggioranza al partito o alla coalizione di partiti che avesse conseguito più voti all’elezione. L’unica differenza rispetto alla legge porcellum consiste nell’ancorare il risultato dei singoli partiti a quello dei candidati premier ai quali devono necessariamente essere collegate le liste elettorali per il Parlamento. Ma proprio l’esperienza del porcellum dimostra che un meccanismo elettorale del genere non è affatto in grado di conferire maggiore stabilità al sistema istituzionale. Anzi nel porcellum, così come nel mattarellum (nella versione Camera dei Deputati) e nel rosatellum vi è un elemento che rende intrinsecamente debole e instabile il nostro sistema.
Con questi sistemi i partiti da un lato sono incentivati a coalizzarsi per concorrere con maggiori chances al premio di maggioranza o alla vittoria nel collegio e dall’altro devono correre ciascuno per i fatti propri per massimizzare il numero dei propri voti e quindi la propria rilevanza politica nei rapporti con gli alleati. In particolare, con questi sistemi elettorali un partito minore della coalizione che ha vinto le elezioni si trova nella necessità di rafforzare il proprio profilo identitario, perché sa che se si dimostra troppo leale con il Governo, se si appiattisce troppo sull’alleato maggiore (che esprime il Presidente del Consiglio) rischia di vedere erosa la propria base elettorale, rischia alle elezioni successive di sparire dalla scena.
Ed è quanto puntualmente accaduto nella storia della nostra repubblica con le crisi aperte dalla Lega di Umberto Bossi, da Rifondazione comunista di Bertinotti e dall’UDC di Pierferdinando Casini. Ed è per questi motivi che se la Meloni vuole davvero imprimere una svolta storica all’assetto istituzionale della nostra democrazia deve individuare un meccanismo elettorale che sia coerente con l’assetto semipresidenziale o del premierato elettivo. La soluzione più semplice sarebbe quella di copiare il modello francese del collegio maggioritario a doppio turno. Ma anche se si vuole individuare una soluzione originale basato su un premio di maggioranza riconosciuto a livello nazionale ebbene questo premio lo si riconosca sempre e solo al partito che ha vinto le elezioni e non alle coalizioni di partiti diversi. Se, come accade in Italia, le aree politiche sono frammentate in diversi partiti, questi partiti potranno certo coalizzarsi ma in questo caso dovranno dar luogo ad una lista (unica) di coalizione e non ad una coalizione di liste di partiti (distinti).
In ogni caso l’elettore potrà scegliere fra uno dei candidati presidente ciascuno collegato ad un solo partito o meglio ad una sola lista elettorale (nella quale possono anche confluire esponenti di partiti differenti). Un sistema del genere garantirebbe grande stabilità ed efficienza al sistema perché eliminerebbe in radice gli incentivi ai diversi partiti della maggioranza di governo ad adottare comportamenti competitivi e di contestazione nei confronti degli altri partiti della coalizione. Sarebbe la migliore garanzia contro la pratica degenerativa dei ribaltoni.