Condono e catasto: una storia tutta italiana

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Condono e catasto: una storia tutta italiana

Condono e catasto: una storia tutta italiana

19 Maggio 2022

La riforma del Catasto, che desta le perplessità del centrodestra e fa parte del disegno di legge delega del Governo, è diviso in due commi che racchiudono altrettante fasi. La prima fase persegue l’obiettivo di modificare e modernizzare gli strumenti di individuazione e di controllo di terreni e fabbricati. Consisterebbe, in sostanza, in una operazione di trasparenza utile a rilevare: – immobili non censiti o con destinazione d’uso diversa; – terreni edificabili accatastati come agricoli; – immobili abusivi.

Va premesso, doverosamente, che la legge delega fiscale non contiene che l’ossatura della riforma senza entrare nel dettaglio. Saranno i decreti legislativi che faranno seguito alla delega a delineare tutte le azioni che verranno intraprese. Nella prima fase l’intento del Governo sarebbe quello di far “riaffiorare” i terreni e gli immobili “fantasma” non censiti in Catasto in una con i terreni edificabili ma accatastati come agricoli e tutti gli immobili abusivi. Ma proprio il richiamo al tema “dell’abuso edilizio” rappresenta il vero “convitato di pietra” della prima fase dell’articolo 6.

Infatti detto primo comma dell’articolo 6, in pratica, evita di affrontare il problema della regolarità urbanistica dei cespiti dato strutturale ed antecedente logico e giuridico di ogni corretta individuazione catastale. Già in occasione del cosiddetto “decreto Genova” nell’anno 2018 il capogruppo del Pd Graziano Delrio sottolineava come in Italia ci fossero 5 milioni di pratiche inevase per l’edilizia e che in alcune regioni la metà degli abusivi fosse abusiva.

Dal 1985 ad oggi sono stati promulgati tre condono edilizi: la legge n. 47 del 28 febbraio 1985, la legge n. 274 del 23 dicembre 1994 e la legge n. 326 del 24 novembre 2003 con perimetri di condonabilità non coincidenti. Maggiore e più esteso quello della prima legge sul condono e cioè la legge n. 47 dell’anno 1985, più ristretti soprattutto in tema di improcedibilità delle domande di condono in presenza di vincoli paesaggistici e/o idro-geologici quelli delle leggi n. 274 del 1994 e della 326 del 2003.

Secondo dati riportati dal Centro Studi Sogeea (citati da Agi.it) in Italia sarebbero state, nel periodo ante covid, oltre 5 milioni le domande di concessioni in sanatoria da evadere (circa 1/3 del totale delle domande presentate che assommerebbero ad oltre 15 milioni).

Naturalmente occorre tener conto che non tutti i comuni italiani hanno gli archivi digitalizzati per la domanda di condono e in molti casi sullo stesso immobile risultano presentate istanze di condono diverse in dipendenza del succedersi delle leggi complicando l’iter procedimentale del provvedimento finale concessorio. Sempre secondo tali studi Roma è in testa alla classifica delle domande di concessione in sanatoria inevase (quasi trecentomila) con mancati introiti di oneri autoliquidati pari ad oltre 500 milioni.

Sempre secondo Sogeea, da queste domande ancora inevase, i mancati guadagni per le casse dello Stato sarebbero pari, per tutto il territorio nazionale, a circa 21,7 miliardi di Euro, una stima ottenuta sulla base di un calcolo che tiene conto delle rate non pagate ed una serie di oneri accessori.

Risulta del tutto evidente che il tema della regolarità urbanistica si pone come antecedente logico e giuridico rispetto a quello del successivo corretto accatastamento senza possibilità di correlazione inversa. Un immobile conforme urbanisticamente può e deve essere regolarizzato ove non accatastato o non correttamente censito. Ma un immobile su cui pende l’esito di un procedimento di condono edilizio, in ipotesi per abuso totale, in che condizioni versa?

Il procedimento di sanatoria, infatti, potrebbe anche concludersi con un diniego (per essere l’immobile abusivo oggettivamente o soggettivamente incondonabile) ed a questo punto il problema non è certo l’accatastamento ma l’ordine di demolizione e la sua esecuzione.

Quello che si vuol dire è che la fotografia degli immobili su base catastale si regge su una tesi (implicita e non sviluppata) errata: e cioè che gli immobili da inserire in Catasto siano urbanisticamente conformi alle normative edilizie. Gli immobili su cui pende una domanda di concessione in sanatoria dall‘abusivismo totale al cambio di destinazione radicale vivono una realtà da “particella quantistica” cioè la loro esistenza giuridica “in factum esse” dipende dall’esito positivo del procedimento di sanatoria fatto analogo all’osservatore della particella quantistica per determinarne o la velocità o la posizione.

L’esito finale del procedimento di sanatoria può condurre infatti ad un duplice esito: – ad un provvedimento di esito favorevole ed allora l’immobile assume la conformazione di regolarità urbanistica; – ad un provvedimento di reiezione ed in quel caso l’immobile dovrà essere demolito in tutto od in parte e/o ritornare alla destinazione originaria. L’introduzione in Catasto quindi prescinde totalmente nella normativa della delega fiscale dalla conformità urbanistica e questo rappresenta la sua criticità strutturale.

Immaginiamo infatti che venga censito un fabbricato ad uso civile abitazioni completamente abusivo. Se lo Stato, nelle more del procedimento, provvedesse d’ufficio alla sua introduzione in atti catastali ai fini della tassazione ne dovrebbe inferire una regolarità urbanistica. Ma il bene totalmente abusivo ed incondonabile non può essere fonte di reddito per lo Stato ma solo oggetto di ordine di demolizione. Lo Stato non può guadagnare su situazioni illegali.

Il tutto risulta aggravato dal fatto che secondo quanto riportato dai centri Istat e Cresme non esistono dati ufficiali sul numero degli edifici abusivi presenti in Italia e nelle singole regioni. Ad oggi il sistema catastale basato sul cosiddetto “criterio reddituale” ha, sia pure con molta ipocrisia da parte dello Stato, eluso il problema.

Ma l’intendimento del Governo con il secondo comma dell’articolo 6 (seconda fase) è quello di sostituire l’impianto fiscale di tassazione dal modello “reddituale” a quello “patrimoniale” e cioè del valore commerciale del bene. Ma qual è il valore commerciale di un bene su cui pende un procedimento di concessione in sanatoria non definito che, in ipotesi, potrebbe portare alla reiezione della domanda medesima e quindi alla demolizione del bene?

Senza tener conto inoltre che gli immobili sfuggiti all’accatastamento oltre che ad essere soggetti di procedimento di concessione in sanatoria in itinere potrebbero essere adibiti a prima abitazione e come tali non rientranti nel perimetro di applicazione dell’IMU. Probabilmente la mancata definizione dei procedimenti di concessione in sanatoria prima che a problemi burocratici dei comuni (che pure vi sono) discende dalla mancanza di volontà politica in tema di conseguenze elettorali all’esito di provvedimenti di diniego in quanto interessando potenzialmente milioni di famiglie vi è la paura concreta di perdere un importante serbatoio elettorale.

La riforma del Catasto non è in senso stretto un provvedimento collegato al piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) ma di fatto fa parte, in senso lato, della politica del recovery plan. E’ quindi una richiesta della Commissione Europea la quale, come notato dalla stampa specializzata, nelle sue raccomandazioni per il nostro Paese chiede “di rivedere i valori catastali non aggiornati”.

E qui si arriva al secondo comma dell’articolo 6 della riforma. Tale richiesta sembrerebbe di buon senso (e su questo gioca il PD e la sinistra tutta). Buon senso che conduce a due affermazioni entrambe false: la prima che la rendita catastale non rispecchi il valore “di mercato” dell’immobile, la seconda che le rendite catastali siano numeri che non hanno senso ed in ordine ai quali risulterebbe necessario fare un’operazione di trasparenza.

Non è così. E valga il vero. Il nostro Catasto è una delle macchine della pubblica amministrazione più efficienti e dotata delle migliori tecnologie. Il mancato censimento degli immobili (soprattutto, ma non solo, in alcune zone del Sud) è dovuto alla mancanza di volontà politica di definire le pratiche di condono edilizio che interessando milioni di famiglie originano nella politica la paura di perdere un importante serbatoio elettorale. Le metodologie di accatastamento, i criteri di censimento, la velocità di recepimento delle variazioni del catasto sono performanti e altamente digitalizzate.

Allora perché tutta questa attenzione su un organismo della pubblica amministrazione, il Catasto, che funziona benissimo?

Il vero problema è l’IMU (l’odiosa tassa che ha sostituito la vecchia ICI). L’IMU, che nessuno ha il coraggio di chiamare imposta patrimoniale, viene calcolata all’attualità sulla rendita catastale la quale per dettato normativo risponde a criteri “reddituali” e non “patrimoniali”. Di qui la necessità, per rendere la rendita catastale di fatto un’imposta patrimoniale, di coefficienti di moltiplicazione della rendita variamente modificati nel tempo.

Il problema quindi non è la rendita catastale (che assolve benissimo il suo dovere). Il problema è l’IMU che, per essere in tutto e per tutto un’imposta patrimoniale, necessita come base di calcolo del valore di mercato dell’immobile e non della rendita catastale. Quindi, nell’ottica della sinistra, dietro l’innocente (e furbesca) locuzione “riforma del Catasto” deve leggersi “imposta patrimoniale”.

Per una migliore comprensione dei lettori esporremo di seguito le falsità delle argomentazioni della sinistra sulla presunta inefficienza del Catasto nel (nemmeno mascherato) tentativo di introdurre l’imposta patrimoniale. Non è vero che gli estimi catastali risalgono ad oltre 50 anni fa.

Le rendite catastali sono aggiornatissime (ad horas) non solo per tutte le zone ma anche, all’interno delle zone, nelle cosiddette “microzone” in modo da dare una rendita che tenga conto del piano, dell’esposizione, della natura dell’edificio e financo del pregio delle scale e degli ascensori. Quello che non si vuol dire è che la rendita catastale non è una rendita “di valore commerciale” ma di “valore reddituale”.

Questo perché il legislatore del dopoguerra aveva ben presente che fenomeni imponderabili (allora si pensava più alle guerre che alle pandemie ma il risultato del ragionamento non cambia) potessero abbattersi sul valore commerciale degli immobili fin quasi ad azzerarli e che quindi parametrarne le imposte su un valore variabile come quello di mercato rispetto ad un valore da assumere come fisso per la durata di decenni avrebbe comportato (stante l’impossibilità anche per il miglior Catasto del mondo di cambiare rendite continuamente e in tempo reale) enormi ingiustizie fiscali.

Si scelse quindi il metodo cosiddetto reddituale (ed è per questo che si chiama “rendita catastale”) che parametra l’imposizione fiscale sull’immobile a una rendita figurativa che proiettata su tempi mediamente lunghissimi consente di contenere, se non di eliminare, il problema delle oscillazioni che presenta invece il valore di mercato.

Ed è pure più giusto perché la richiesta di un immobile è data soprattutto da quanto esso messo a profitto può “rendere”. Quindi il legislatore è stato tutt’altro che cretino e non è che gli scienziati di adesso scoprono che rendita catastale e valore commerciale non coincidono: non possono coincidere in quanto uno è valore di scambio (soggetto alle contingenze di mercato) e l’altro rendita di messa a profitto del bene mediante contratti di locazione spalmati normalmente in un arco temporale che si misura in decenni. Non è vero che risulti ignoto all’Amministrazione il reale valore degli immobili.

Da oltre 10 anni è compiuta la digitalizzazione di tutti gli atti di trasferimento di immobili (sia compravendite che successioni): non solo, ma esistono osservatori specializzati (strutturali all’Agenzia delle Entrate) che compiono un monitoraggio quotidiano del valore di mercato degli immobili. Un esempio è l’OMI le cui risultanze vengono ritenute probanti anche in caso di contenzioso da o contro l’Agenzia delle Entrate.

Quindi, in buona sostanza, tutta l’amministrazione finanziaria conosce in tempo reale entrambi i dati: 1) il valore reddituale dell’immobile (e cioè quanto può rendere se affittato) su cui viene parametrata la rendita catastale “reddituale” (fornito dagli uffici catastali); 2) il valore commerciale dell’immobile desunto dalle Conservatorie dei Registri Immobiliari (Agenzia fiscale del territorio – Servizio di Pubblicità Immobiliare). Quindi trasportare il valore commerciale, perfettamente conosciuto dall’Amministrazione finanziaria, in Catasto, significa sostituire il criterio “reddituale” con quello patrimoniale di tal che le imposte prenderanno il nome che le compete e cioè “imposta patrimoniale”.

A Mario Draghi bisogna credere, e ben vengano dunque le operazioni di chiarezza. Ma occorre vigilare per evitare che i partiti delle tasse strumentalizzino la riforma per introdurre surrettiziamente le basi di una patrimoniale sulla casa.