I morti di Marienburg e le domande senza risposta sui crimini sovietici

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I morti di Marienburg e le domande senza risposta sui crimini sovietici

30 Agosto 2009

Quando nella primavera scorsa, unici in Italia, riportammo la notizia del ritrovamento di una fossa comune presso la cittadina di quella regione che oggi è Pomerania polacca, i lavori di sbancamento del terreno e quelli di composizione degli scheletri non erano ancora terminati. Si parlava allora di più di 1.800 morti, tra donne, vecchi e bambini: tutti civili tedeschi, uccisi intorno alla metà degli anni Quaranta. Secondo la relazione conclusiva delle autorità polacche i corpi ritrovati sono stati 2.116 (1001 donne, 381 uomini, 377 bambini e i restanti non identificati) e lo scorso 14 agosto ad altrettante singole bare è stata data una sepoltura dignitosa a Glinna, a sud di Stettino (dunque sempre in Polonia) in una particolare zona dedicata a “vittime civili” in un cimitero già ospitante caduti tedeschi e polacchi della Seconda Guerra Mondiale. Alla cerimonia di sepoltura, oltre a quella delle autorità locali e di alcune centinaia di ospiti, tra ex profughi e vecchi residenti di Marienburg, da segnalare la presenza di ecclesiastici cattolici e protestanti, sia tedeschi che polacchi, in particolare quella dell’emerito cattolico Gerhard Pieschl, chiamato il “vescovo dei profughi” (i tedeschi espulsi dai territori orientali del Reich). Del tutto assenti i politici tedeschi, invece: non c’era il Ministro degli Esteri Steinmeier (SPD), ma neppure Erika Steinbach (CDU), presidente spesso discussa della Lega degli Espulsi (BdV). Sarà stata la campagna elettorale in corso a suggerire ad entrambi di non immischiarsi in situazioni nelle quali potrebbe essere messo in discussione il dogma della colpa collettiva tedesca durante il Terzo Reich?

 

I morti (di nessuno è stato possibile risalire all’identità) sono stati dunque riconsegnati alla terra, ma praticamente tutte le domande poste dal ritrovamento sono rimaste senza risposta. In alcuni casi pare proprio che le questioni siano state volutamente eluse. Anzitutto il numero dei corpi: alla fine di aprile si era arrivati alla cifra di circa 2.500 scheletri. Visti i quasi 400 corpi in meno della relazione finale, qualcuno si è chiesto ragionevolmente che fine avessero fatto i restanti inizialmente annunciati. Varie e non del tutto chiare poi le cause di morte: se da un lato prevalgono la fame, il freddo e le malattie, è lo stesso resoconto finale a delimitare senza spiegazione il periodo di morte di tutte le vittime tra il gennaio e il marzo 1945, dunque nei mesi d’occupazione di Marienburg da parte dei soldati dell’Armata Rossa. In realtà, dai referti risulta che solo poche ossa presentano segni di morte violenta. E sono proprio i risultati prodotti dall’Istituto Polacco per la Memoria Nazionale di Danzica (IPN) a suscitare perplessità nella minoranza tedesca residente oggi in Polonia. Bodo Rückert, per esempio, presidente dello “Heimatkreis Marienburg” (www.heimatkreis-marienburg.de) critica l’IPN per non aver voluto effettuare un’approfondita ricerca sugli scheletri al fine di stabilirne l’epoca esatta della morte. E’ questa incertezza a lasciare aperta la porta ad un’ipotesi terribile: “Non c’è alcuna prova, nessun indizio che i morti di Marienburg siano stati provocati dalla guerra”, ha dichiarato Rückert, “tanto che si può pensare siano stati piuttosto vittime di crimini avvenuti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ma su questo non abbiamo alcuna certezza semplicemente perché non si è voluto cercare”. Un’accusa dunque neppure troppo velata alle autorità comuniste polacche filo-sovietiche del secondo dopoguerra.

 

Nel corso della cerimonia di sepoltura non poteva esserci spazio per risposte alle questioni aperte. E’ stata piuttosto la volontà di non riaprire vecchie ferite ad emergere, anche grazie al discorso tenuto da Michael Gerdts, l’ambasciatore tedesco a Varsavia, il quale, citando la “Dichiarazione di Danzica” sottoscritta nel 2003 da Germania e Polonia, ha chiesto “che il ricordo e il lutto non vengano utilizzati per dividere nuovamente l’Europa”. Un auspicio che rischia di essere giusto per metà, e dunque vano, se non si ha il coraggio di anteporre la verità storica al calcolo politico.