Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 16 e 17

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Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 16 e 17

Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 16 e 17

10 Maggio 2020

Introduzione

Capitoli 2 e 3

Capitoli 4 e 5

Capitoli 6 e 7

Capitoli 8 e 9

Capitoli 10 e 11

Capitoli 12 e 13

Capitoli 14 e 15

Capitolo 16

L’armata francese entrò in Napoli a’ 22 di gennaio. La prima cura di Championnet fu quella d’«istallare» un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che provvedeva ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione permanente dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a venticinque persone, le quali, divise in sei «comitati», si occupavano de’ dettagli dell’amministrazione ed esercitavano quello che chiamasi «potere esecutivo»; riunite insieme, formavano l’assemblea legislativa.

I sei comitati erano: 1° centrale, 2° dell’interno, 3° di guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia, 6° di legislazione. Le persone elette al governo furono: Abamonti, Albanese, Baffi, Bassal francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano, Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo.

Ma l’immaginare un progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che fondare una repubblica. In un governo in cui la volontá pubblica, o sia la legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontá privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini liberi. Prima d’innalzare sul territorio napolitano l’edifizio della libertá, vi erano, nelle antiche costituzioni, negl’invecchiati costumi e pregiudizi, negl’interessi attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente libertá e da Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto. Egli avea de’ potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente gl’inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea che difficilmente sussistere.

Dall’epoca de’ romani in qua, la sorte dell’Italia meridionale dipende in gran parte da quella della Sicilia. I romani ridussero l’Italia a giardino, il quale ben presto si cangiò in deserto. Dopo le grandi conquiste de’ romani, s’incominciò ad udire per la prima volta che la Sicilia era il granaio dell’Italia; detto quanto glorioso per la prima tanto ingiurioso per la seconda. Non si sarebbe ciò detto prima del quinto secolo di Roma, quando l’Italia bastava sola ad alimentare trenta milioni di uomini industriosi e guerrieri, di costumi semplici e magnanimi. Ne’ secoli di mezzo, chiunque fu padrone della Sicilia turbò a suo talento l’Italia, Dalla Sicilia Belisario distrusse il regno de’ goti; dalla Sicilia i saraceni la infestarono per tre secoli, finché i normanni la riunirono di nuovo al regno di Napoli, al quale rimase unita fino all’epoca di Carlo primo d’Angiò. E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia influito a ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltá, la quale, prima che in ogni regione d’Italia, vi avevan destata il gran Federico di Svevia e la sventurata sua progenie? I due regni furon riuniti sotto la lunga dominazione della casa Austriaca di Spagna. In que’ tempi appunto Napoli incominciò ad ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per sussistere ha bisogno del fromento e piú dell’olio delle province lontane che bagna l’Adriatico, ed il commercio delle quali non si può comodamente esercitare, né la capitale potrebbe comodamente sussistere, senza il libero passaggio per lo stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi tiene in Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che picciole e mal sicure rade.

Avea il re nel Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l’antico governo in preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean deposte quelle armi che avean prese, invitate e spinte da’ proclami del re; altre pronte a prenderle, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro ispirava una conquista sí rapida ed accorte della debolezza della forza francese, avessero ritrovato un intrigante per capo ed un’ingiustizia, anche apparente, del nuovo governo per pretesto di una sollevazione.

Il numero di coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa intera della popolazione, era molto scarso; e, tosto che l’affare si fosse commesso alla decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone un esempio nella provincia di Lecce, dove la sollevazione fu prodotta da un accidente che, per la sua singolaritá, merita d’esser ricordato.

Trovavansi in Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colá portati a causa di procurarsi un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che impediscono colá l’uscita dal porto, impedirono la partenza de’ còrsi, i quali loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la repubblica. E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle mani dei francesi, sen partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per Brindisi, sperando di trovar un imbarco per Corfú o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati da una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che vi era tra essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse e corresse da un suo parente chiamato Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio. Costui si recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al piú giovane e gli protestò tutti gli atti di riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi, e, dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda, senz’aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il Girunda dalla vecchia istessa della partenza del supposto principe ereditario, montò tosto a cavallo per raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato, domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo séguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi tutti i paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze del momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro in Mesagne, si ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte, cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credè due altri principi del sangue. Questi due impostori, uno cognominato Boccheciampe e l’altro De Cesare, si misero tosto alla testa degl’insurretti. Il primo restò nella provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione.

Con questa truppa, che fu tutta composta di birri, degli uomini d*armi dei baroni, dei galeotti e carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti i facinorosi delle due province, riuscí loro facile l’impadronirsi di tutti i paesi che proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un assedio Martina ed Acquaviva, le quali cittá giurato avevano piuttosto morire che riconoscer gl’impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di provarsi coi francesi, i quali erano giá padroni di una buona porzione della provincia di Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il Boccheciampe in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle mani dei francesi; ma il secondo, piú astuto, se ne scappò, dopo la nuova della prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l’antico Metaponto, e andiede ad unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.

La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti1 e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quell’istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il piú grande ostacolo allo stabilimento della libertá. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, cosí la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltá. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani, che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Cosi la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva.

Le disgrazie de’ popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni delle piú utili veritá. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte che per la superioritá della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autoritá sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metá della sua indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime da seguire, gli ambiziosi ne profittano, la rivoluzione degenera in guerra civile, ed allora tanto gli ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi che scelgono sempre i minori tra i mali, e gl’indifferenti i quali non calcolano che sul bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una potenza esterna, la quale non manca mai di profittare di simili torbidi o per se stessa o per ristabilire il re discacciato.

Quell’amore di patria, che nasce dalla pubbhca educazione e che genera l’orgoglio nazionale, è quello che solo ha fatto reggere la Francia, ad onta di tutt’i mali che per la sua rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l’Europa collegata contro di lei: mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi è nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla mano de’ tedeschi o degl’inglesi. Ninno piú di Pitt dagli esempi domestici ne avrebbe dovuto esser convinto, se mai la vendetta dei diritti borbonici fosse stata la cagione e non giá il pretesto della lega, che una tal guerra, col pretesto di rimettere un re, era inutile.

La nazione napolitana, lungi dall’avere quest’unitá nazionale, si potea considerar come divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia voluto riunire in una picciola estensione di terreno tutte le varietá: diverso è in ogni provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha sempre seguite tali varietá per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque ritrovasse nuovi benefici della natura, ed il sistema feudale, che ne’ secoli scorsi, tra l’anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi luoghi e le diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietá ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la proprietá ed i mezzi di sussistenza.

Conveniva, tra tante contrarietá, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva, dall’altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzione.

Si avea una popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da sé, era però docile a riceverla da un’altra mano. I partiti decisi erano ambedue scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de’ due pretendenti, avrebbe seguito quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo s’illude difficilmente, ma facilmente si governa.

Esso non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti i Borboni; e, quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti, esso ne avrebbe ben accettato il dono.

Le insorgenze ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro della guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessitá di odiare da vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali, armati e vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della nazione intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non iscoppiarono che molto tempo dopo.

Vi furono anche molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l’entusiasmo della libertá, che prevennero l’arrivo de’ francesi nella capitale e si sostennero colle sole loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una forza imponente, se si avesse saputo trarne profitto.

La popolazione immensa della capitale era piú istupidita che attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il popolo della capitale era piú lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso da’ tributi e piú vezzeggiato da una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo piú sulla feccia del popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sí che non sia desiderato anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepí di quella popolazione, fece sí che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le province, dalle quali solamente si doveva, temere, e dalle quali si ebbe infatti la controrivoluzione.

Capitolo 17

Quali dunque esser doveano le operazioni da farsi per spingere avanti la rivoluzione del regno di Napoli?

Il primo passo era quello di far si che tutti i patrioti fossero convenuti nelle loro idee, o almeno che per essi vi fosse convenuto il governo.

Tra i nostri patrioti (ci si permetta un’espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra, moltissimi l’aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi; alcuni lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno confondeva la libertá colla licenza, e credeva acquistar colla rivoluzione il diritto d’insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare di calcolo. Ciascuno era mosso da quel disordine che piú lo aveva colpito nell’antico governo. Non intendo con ciò offendere la mia nazione: questo è un carattere di tutte le rivoluzioni; ma, al contrario, qual altra può, al pari della nostra, presentare un numero maggiore o anche eguale di persone che solo amavano l’ordine e la patria?

Si prendeva però, come suol avvenire, per oggetto principale della riforma ciò che non era che un accessorio, ed all’accessorio si sagrificava il principale. Seguendo le idee de’ patrioti, non si sapeva né donde incominciare né dove arrestarsi.

Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi delle altre. Se a costoro si presenta un capo che li voglia riunire, la riunione non seguirá giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse in comune, allora seguirá la rivoluzione ed andrá avanti solo per quell’oggetto che è comune a tutti. Gli altri oggetti rimarranno trascurati? No; ma ciascuno adotterá il suo interesse privato al pubblico, la volontá particolare seguirá la generale, le riforme degli accessorii si faranno insensibilmente da tempo, e tutto camminerò in ordine.

Non vi è governo il quale non abbia un disordine che produce moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non offra a molti molti beni e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioè vuol tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i quali braman la rivoluzione per una ragione, l’aborrono per un’altra: passato il primo momento dell’entusiasmo ed ottenuto l’oggetto principale, il quale, perchè comune a tutti, è sempre per necessitá con piú veemenza desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se stesso e poi agli altri: — Ma per ora potrebbe bastare… Il di piú, che si vuol fare, è inutile…, è dannoso. — Comincia ad ascoltarsi l’interesse privato; ciascuno vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia possibile; e siccome le sensazioni del dolore sono in noi piú forti di quelle del piacere, ciascuno valuta piú quello che ha perduto che quello che ha guadagnato. Le volontá individuali si cangiano, incominciano a discordar tra loro; in un governo, in cui la volontá generale non deve o non può avere altro garante ed altro esecutore che la volontá individuale, le leggi rimangono senza forza, in contraddizione coi pubblici costumi, i poteri caderanno nel languore; i languore o menerá nell’anarchia o, per evitar l’anarchia, sará necessitá affidare l’esecuzione delle leggi ad una forza estranea, che non è piú quella del popolo libero; e voi non avrete piú repubblica.

Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere tutto ciò che il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirá: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo piú non vuole; egli allora vi abbandonerebbe. Bruto, allorché discacciò i Tarquini da Roma, pensò a provvedere il popolo di un re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di avere un re sul trono, lo credevano però ancor necessario nell’altare.

La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perché non attacca la volontá generale, ma la volontá individuale. Sapete allora perché si segue un usurpatore? Perché rallenta il rigore delle leggi; perché non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontá sua, la quale prende il luogo ed il nome di «volontá generale», e lascia tutti gli altri alla volontá individuale del popolo. «Idque apud imperitos ‛humanitas’ vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano carattere di tutti i popoli della terra! Il desiderio di dar loro soverchia libertá risveglia in essi l’amore della libertá contro gli stessi loro liberatori.