
Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 18 e 19

11 Maggio 2020
Capitolo 18
Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt’i popoli della terra, e specialmente della rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non han poco contribuito ai nostri mali.
Hanno voluto imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di male, di cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i nostri voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto che la rivoluzione francese fosse l’opera della filosofia, mentre la filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo stato attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe un giorno divenuta.
La rivoluzione francese aveva un’origine quasi legale, che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati generali e poscia delle assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee erano state convocate.
Quello stesso stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto tempo inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali; si formò l’Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell’Assemblea. Che vi sia stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin qui non vi è ancora rivoluzione.
Essa incominciò allorché il re si separò dall’Assemblea: allora incominciò la guerra civile, ed il partito dell’Assemblea seppe guadagnare il popolo coll’idea della giustizia.
E fin qui il popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo cosi, delle sue idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia conservava ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati dall’autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re stesso autorizzò l’Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne re costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranitá della nazione ed aveva giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito dell’Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del 1789, le trovo più simili che non si pensa: s’incomincia la riforma in nome del re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche.
Le operazioni de’ popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini. Se invertite, se turbate l’ordine e la serie delle medesime, se volete esporre nell’Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderá; ed invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale declamatore. Al pari che l’uomo lo è nelle idee, un popolo è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite; l’esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l’esterna solennitá delle formole sostiene un’operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da quella retta nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l’errore, ma ignorerete la strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica necessitá quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerá non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie di poterlo legittimamente impedire. Quando l’errore vien da un metodo fallace, il ricredersene è piú difficile, perché è necessitá ritornar indietro fino al punto, spesso lontano, in cui la linea della fallacia si separa da quella della veritá; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi decimosesto contro tutte quelle leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora come avea ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed è cosa «di cattivissimo esempio in una repubblica — dice Macchiavelli — fare una legge e non la osservare, e tanto piú quando la non è osservata da chi l’ha fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione di Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò l’infelice Luigi decimosesto.
Nell’epoca istessa in cui la Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono anche quelle riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste riforme? Vi fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente. i partiti non si intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si correva dietro una parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora non indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.
Robespierre ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole delle cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre voleva scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i suoi fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le cose senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di «oltrerivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo?
Robespierre salvò la Francia, facendo rivoltare tutt’i partiti contro di lui ed, in conseguenza, riunendoli1; ma Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona, le sue idee, la costituzione sua.
Le idee erano giunte all’estremo e doveano retrocedere. Si era riformato piú di quello che il popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in favor loro il pubblico costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto piú son capricciose. Il sistema de’ moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro altra importanza che quella che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore e la sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.
L’uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt’i suoi affetti, giunti all’estremo, s’indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l’uomo si stanca dello stesso sentimento di libertá. «Nec totam Libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito del popolo romano: a me pare che si possa dire di tutt’i popoli della terra. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo all’estremo il senso della libertá, se non che accelerarne il cambiamento?
La vita e le vicende de’ popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è tra l’estrema servitú e la libertá estrema uno stadio che tutt’i popoli corrono, e si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di tutt’i popoli. La plebe romana era serva addetta alla gleba di pochi patrizi, non aveva proprietá né di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la sicurezza delle persone e de* beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza auspici, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a tutte queste cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con moderazione; e ciò non solo prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la vicendevole emulazione delle parti che la componevano, piú energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe «eguaglianza di diritto», i tribuni pretesero anche l’eguaglianza di fatto: s’incominciò a parlar di leggi agrarie, e la repubblica perí. Si era giunto a quell’estremo oltre del quale era impossibile progredire. Nel primo anno della rivoluzione francese non si pensava che a stabilire quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l’Europa; nel terzo però si pretendeva l’eguaglianza di fatto: in tre anni voi passate dall’etá di Menenio Agrippa a quella de’ Gracchi. Che dico io mai? Nell’etá de’ Gracchi, mentre si pretendeva eguagliare i beni, si riconosceva la legittimitá del dominio civile. Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne dall’eseguire la divisione de’ beni. In Francia le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in dubbio la legittimitá delle doti, quella de’ testamenti, l’istessa legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è proprietá. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo piú innanzi di quelle de’ Gracchi: ed ecco perché, contando da quest’epoca, la repubblica francese ha avuto un secolo meno di vita della romana.
Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertá diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno sempre i pochi e i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti.
Le idee di Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però era possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti de’ francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno capaci di sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma a capo di tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare o pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o pazzo.
Ho cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de’ suoi amici ed anche de’ suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla. Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean prefísso, perché per me è ben lontano dall’esser evidente che Robespierre, predicando libertá, non tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro ambizione, egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell’autoritá, che Macchiavelli chiama «pericolosissima», libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell’uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá divenir tirannici. Né l’uno né l’altra comprese la massima o di non offender nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar loro cagioni di quietare e fermare l’animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne’ cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l’impero col terrore; non eran militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla medesima sostituita l’inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è piú crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa specie di tirannide, che chiamar si potrebbe «decemvirale», è la piú terribile di tutte, ma per buona sorte è la meno durevole.
Per gli uomini che riflettevano, il «moderantismo» non era che uno stato intermedio, il quale ne dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la lotta che avea sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo. Un eccesso di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era stata fatta da un partito, il quale poi, come suol avvenire, avea affidata la somma delle cose a mani perfide e sciagurate. La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto il Direttorio la sua indipendenza2.
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicitá è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso non ritrova mai questo punto!
Capitolo 19
Il male, che producono le idee troppo astratte di libertá, è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire. La libertá è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l’agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l’accrescimento dell’industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertá. Un uomo, il quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare la libertá, rassomiglierebbe l’Alcibiade di Marmontel, il quale voleva esser amato «per se stesso».
La nazione napolitana bramava veder riordinate le finanze piú incomode per la cattiva distribuzione che per la gravezza de’ tributi; terminate le dissensioni che nascevan dalla feudalitá dissensioni che tenevano la nazione in uno stato di guerra civile; divise piú equamente le immense terre che trovavansi accumulate nelle mani degli ecclesiastici e del fisco. Questo era il voto di tutti: quest’uso fecero della loro libertá quelle popolazioni, che da per loro stesse si democratizzarono, e dove o non pervennero o sol pervennero tardi gli agenti del governo e de’ francesi.
Molte popolazioni si divisero i terreni, che prima appartenevano alle «cacce regie»1. Molti si revindicarono le terre litigiose del feudo. Ma io non ho cognizione di tutti gli avvenimenti, né importerebbe ripeterli, essendo tutti gli stessi. In Picerno, appena il popolo intese l’arrivo de’ francesi, corse, seguendo il suo paroco, alla chiesa a render grazie al «Dio d’Israele, che avea visitato e redento il suo popolo». Dalla chiesa passò ad unirsi in parlamento, ed il primo atto della sua libertá fu quello di chieder conto dell’uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non tumulti, non massacri, non violenze accompagnarono la revindica de’ suoi diritti: chi fu presente a quell’adunanza udí con piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior numero a taluno, che proponeva mezzi violenti: — Non conviene a noi, che ci lagniamo dell’ingiustizia degli altri, il darne l’esempio. — Il secondo uso della libertá fu di rivendicare le usurpazioni del feudatario. E quale fu il terzo? Quello di far prodigi per la libertá istessa, quello di battersi fino a che ebbero munizioni, e, quando non ebbero piú munizioni, per aver del piombo, risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli organi delle chiese… — I nostri santi — si disse — non ne hanno bisogno. — Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche gl’istrumenti piú necessari della medicina; le femmine, travestite da uomini onde imporre al nemico, si batterono in modo da ingannarlo piú col loro valore che colle vesti loro.
Non son questi gli estremi dell’amore della libertá? Ed a questo stesso segno molte altre popolazioni pervennero; e pervenute vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le stesse idee, i bisogni medesimi ed i medesimi desidèri.
Ma, mentre tutti avean tali desidèri, moltissimi desideravano anche delle utili riforme, che avessero risvegliata l’attivitá della nazione, che avessero tolto l’ozio de’ frati, l’incertezza delle proprietá, che avessero assicurata e protetta l’agricoltura, il commercio; e questi formavano quella classe che presso di tutte le nazioni è intermedia tra il popolo e la nobiltá. Questa classe, se non è potente quanto la nobiltá e numerosa quanto il popolo, è però dappertutto sempre la piú sensata. La libertá delle opinioni, l’abolizione de’ culti, l’esenzione dai pregiudizi era chiesta da pochissimi, perché a pochissimi interessava. Quest’ultima riforma dovea seguire la libertá giá stabilita; ma, per fondarla, si richiedeva la forza, e questa non si potea ottenere se non seguendo le idee del maggior numero. Ma si rovesciò l’ordine, e si volle guadagnar gli animi di molti, presentando loro quelle idee che erano idee di pochi.
Che sperare da quel linguaggio che si teneva in tutt’i proclami diretti al nostro popolo? «Finalmente siete liberi »… Il popolo non sapeva ancora cosa fosse libertá: essa è un sentimento e non un’idea; si fa provare coi fatti, non si dimostra colle parole. «Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema »… Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicitá? «L’uomo riacquista tutt’i suoi diritti»… E quali? «Avrete un governo libero e giusto, fondato sopra i princípi dell’uguaglianza; gl’impieghi non saranno il patrimonio esclusivo de’ nobili e de’ ricchi, ma la ricompensa de’ talenti e della virtú »… Potente motivo per il popolo, il quale non si picca né di virtú né di talenti, vuol esser ben governato, e non ambisce cariche! «Un santo entusiasmo si manifesti in tutt’i luoghi, le bandiere tricolori s’innalzino, gli alberi si piantino, le municipalitá, le guardie civiche si organizzino»… Qual gruppo d’idee che il popolo o non intende o non cura! «I destini d’Italia debbono adempirsi.» «Scilicet id populo cordi est: ea cura quietos sollicitat animos». «I pregiudizi, la religione, i costumi»… Piano! mio caro declamatore; finora sei stato solamente inutile, ora potresti esser anche dannoso2. Il corso delle idee è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare il grado di forza negli effetti. Le prime idee che si debbono far valere sono le idee di tutti; quindi le idee di molti; in ultimo luogo le idee di pochi. E, siccome coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed hanno piú idee degli altri, perché veggono piú mali e comprendono piú beni, cosí molte volte è necessario che i repubblicani per istabilir la repubblica si scordino di loro stessi. Molti mali soffrí per lungo tempo Bruto, moltissimi ne previde, ma, finché fu solo a soffrire ed a prevedere, tacque; molti ne soffrirono i patrizi prima che si lagnasse il popolo; finalmente il fatto di Lucrezia fece ricordare ad ognuno che era marito: allora Bruto parlò prima al popolo e lo mosse, poscia parlò al senato, e, quando la rivoluzione fu compita, ascoltò se stesso. Tutto si può fare: la difficoltá è solo nel modo. Noi possiamo giugnere col tempo a quelle idee alle quali sarebbe follia voler giugner oggi: impresso una volta il moto, si passa da un avveni- mento all’altro, e l’uomo diventa un essere meramente passivo. Tutto il segreto consiste in saper donde si debba incominciare.
Non si può mai produrre una rivoluzione, a meno che non sia una rivoluzione religiosa, seguendo idee troppo generali, né seguendo un piano unico. Mille ostacoli tu incontrerai ad ogni passo, che non si erano preveduti; mille contraddizioni d’interessi, che, non potendosi distruggere, è necessitá conciliare. Il popolo è un fanciullo, e vi fa spesso delle difficoltá alle quali non siete preparato. Molte nostre popolazioni non amavano l’albero perché non ne intendevano l’oggetto, e talune, che s’indispettivano per non intenderlo, lo biasimavano come magico; molte, invece dell’albero, avrebbero voluto un altro emblema. È indifferente che una rivoluzione abbia un emblema o un altro, ma è necessario che abbia quello che il popolo intende e vuole.
In molte popolazioni eravi un male da riparare, un bene da procurare per poter allettare il popolo: le stesse risorse non vi erano in altre popolazioni; né potevano la legge o il governo occuparsi di tali oggetti se non dopo che la rivoluzione era giá compiuta. Le rivoluzioni attive sono sempre piú efficaci, perché il popolo si dirige subito da se stesso a ciò che piú da vicino l’interessa. In una rivoluzione passiva conviene che l’agente del governo indovini l’animo del popolo e gli presenti ciò che desidera e che da se stesso non saprebbe procacciarsi.
Talora il bene generale è in collisione cogl’interessi de’ potenti. L’abolizione de’ feudi, per esempio, reca un danno notabile al feudatario; ma, piú del feudatario, sono da temersi coloro che vivono sul feudo. Il popolo trae ordinariamente la sussistenza da costoro; comprende che, dopo un anno, senza il feudatario vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il bisogno del momento gli fa trascurare il bene futuro, quantunque maggiore. Il talento del riformatore è allora quello di rompere i lacci della dipendenza, di conoscer le persone egualmente che le cose, di far parlare il rispetto, l’amicizia, l’ascendente che taluno, o bene o male, gode talora su di una popolazione.
Spesse volte ho visto che una popolazione ama una riforma anziché un’altra. Molte popolazioni desideravano la soppressione de’ monasteri, molte non la volevano ancora: piucché la superstizione, influiva sul loro spirito il maggiore o minor bisogno in cui erano de’ terreni. Non urtate la pubblica opinione; crescerá col nuovo ordine di cose il bisogno, e voi sarete sollecitato a distruggere ciò che un momento prima si voleva conservare.
Basta dar avviamento alle cose; di molte non si comprende oggi la necessitá o l’utile, e si comprenderá domani: cosí avrete il vantaggio che farete far dal popolo quello che vorreste far voi.
Non vi curate degli accessorii, quando avete ottenuto il principale. Io, che ho voluto esaminar la rivoluzione piú nelle idee de’ popoli che in quelle de’ rivoluzionari, ho visto che il piú delle volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senza talune apparenze e senza talune solennitá che il popolo credeva necessarie. Avviene nelle rivoluzioni come avviene nella filosofia, dove tutte le controversie nascono meno dalle idee che dalle parole. I riformatori chiamano «forza di spirito» l’audacia colla quale attaccano le solennitá antiche; io la chiamo «imbecillitá» di uno spirito che non sa conciliarle colle cose nuove.
Il gran talento del riformatore è quello di menare il popolo in modo che faccia da sé quello che vorresti far tu. Ho visto molte popolazioni fare da per loro stesse ciò che, fatto dal governo, avrebbero condannato. «Volendo — dice Macchiavelli — che un errore non sia favorito da un popolo, gran rimedio è fare che il popolo istesso lo abbia a giudicare». Ma a questo grande oggetto non si perviene se non da chi ha giá vinto tanto la vanitá de’ fanciulli di preferir le apparenze alle cose reali, quanto la vanitá anche di quegli uomini doppiamente fanciulli, che non conoscono la vera gloria e che la fanno consistere nel far tutto da loro stessi.
Siccome nelle rivoluzioni passive il gran pericolo è quello di oltrepassare il segno in cui il popolo vuole fermarsi e dopo del quale vi abbandonerebbe, cosí il miglior partito, il piú delle volte, è di restarsene al di qua. Il governo avea ordinata la soppressione istantanea di molti monasteri; e questa, commessa a persone non sempre fedeli, non avea prodotto que’ vantaggi che se ne speravano. Si poteano i conventi far rimanere, ma colla legge di non ricever piú nuovi monaci; i loro fondi, con altra legge, si dichiaravano censiti a coloro che ne erano affittuali, colla libertá di acquistarne la proprietá; e cosí si otteneva la ripartizione de’ terreni, l’abolizione del monistero a capo di pochi anni, e frattanto ai monaci si avrebbe potuto vender anche caro questo prolungamento di esistenza. Il voler far in un momento tutto ciò che si può fare non è sempre senza pericolo, perché non è senza pericolo che il popolo non abbia piú né che temere né che sperare da voi.
Il popolo è ordinariamente piú saggio e piú giusto di quello che si crede. Talora le sue disgrazie istesse lo correggono de’ suoi errori. Ho veduto delle popolazioni diventar repubblicane ed armarsi, perché nella loro indifferenza erano state saccheggiate dagl’insorgenti. In Caiazzo taluni della piú vile feccia del popolo insursero ed attaccarono le autoritá costituite; tutti gli altri erano spettatori indolenti: gl’insorgenti soli furono i piú forti, vollero rapinare, e questo ruppe il letargo degli altri. Allora gl’insorgenti non furono piú soli: tutta la popolazione difese le autoritá costituite; ed, istruita dal pericolo, Caiazzo divenne la popolazione piú attaccata alla repubblica.
Da tutto si può trar profitto: tutto può esser utile ad un governo attivo, che conosca la nazione e non abbia sistemi. Tutt’i popoli si rassomigliano; ma gli effetti delle loro rivoluzioni sono diversi, perché diversi sono coloro che le dirigono. Molti avvenimenti io potrei narrare in prova di ciò che ho detto; ma si potrebbe dir tutto senza una noia mortale? Agli esteri bastano i risultati; i nazionali, quando vogliano, possono applicare a ciascuno di essi i fatti ed i nomi che giá sanno.