Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 28 e 29
16 Maggio 2020
Capitolo 28
Championnet, entrando coll’armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola cittá giá desolata dalle immense depredazioni che il passato governo vi avea fatte. Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi del fatto, ma non lo ritrattò; anzi stabili quindici milioni per le province, a suo tempo.
Ma chi potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un’imposizione per se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú facile che seguire il piano della decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione alla quantitá dei beni che nell’officio della decima trovavasi giá liquidata. Si videro famiglie milionarie tassate in pochi ducati, e tassate in somme esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho vista la stessa tassa imposta a chi avea sessantamila ducati all’anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi ne avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse era piú giusto che dassero le prime l’esempio di contribuire con generositá ai bisogni della patria. Si cangiarono tutte le idee: ciò che era imposizione fu considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i gradi di aristocrazia che taluno avea nel cuore. — Noi tassiamo l’opinione — risposero i tassatori ad una donna che si lagnava della tassa imposta a suo marito, il quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale, fuggendo il re, avea perduto tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea commesso l’affare una massima che appena si sarebbe tollerata in un generale di un’armata vittoriosa e nemica. Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all’arbitrio. Questo è il male che producono le imposizioni male immaginate e mal dirette; quando anche evitate l’ingiustizia, non potete evitare il sospetto che producono sul popolo gli effetti medesimi dell’ingiustizia.
Difatti non vi era in Napoli tanto danaro da pagar l’imposizione. Fu permesso di pagarla in metalli preziosi ed in gioie. Chi era incaricato a riceverle ne fu nel tempo istesso il tesoriere, il ricevitore, l’apprezzatore; ed il popolo credette che tutto fosse trafficato non colla bilancia dell’equitá, ma con quella dell’interesse dell’esattore. Io non intendo affermare ciò che il popolo credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami, nominò una commissione composta di persone superiori ad ogni sospetto.
Mentre in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate per un ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche l’attrasso di ciò che doveano all’antico. Quest’ordine fatale dovette esser segnato in qualche momento d’inconsideratezza e per ragion di pratica. Si seguí l’antico stile, lo stile di tutt’i governi: difatti fu un solo dei membri componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed io so per cosa certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione cogli altri suoi compagni. Non avvertí che quello stile non conveniva ad una rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima, ed avea fatta sperare l’abolizione intera. La decima interessava piú la capitale che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá, si occupò sempre il nostro governo. Ma le province si doveano aspettar mai questo linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la loro affezione? In Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de’ principali della cittá e che conosceva gli uomini, si oppose alla pubblicazione ed all’esecuzione dell’ordine. Egli ne prevedeva le funeste conseguenze. Il governo non si rimosse; e quale ne fu l’effetto? Ostuni si rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore popolare.
Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma maggiori sempre quando la nazione vincitrice non ha quell’energia di governo, che tutto attira a sé e fa sí che le passioni dei privati non turbino l’unitá delle pubbliche operazioni. L’esercito di una repubblica, se non è composto dei piú virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell’esercito di un re. Questi mali portano sempre seco loro il disgusto de’ popoli verso colui che ha vinto, e impongono al vincitore verso l’umanitá l’obbligo di un compenso infinito, che solo può assicurare la conquista e quasi render legittima la forza.
Capitolo 29
Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione francese. Si parlava di conquista dopo che si era tante volte promessa la libertá; e, per conciliar la promessa e l’editto, si chiamava «frutto della conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito re.
Ma quali erano i beni del re, che non fossero della nazione? Si chiamava «fondo del re» la reggia, che suo padre non avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni del re» i fondi dell’ordine di Malta e dell’ordine costantiniano, i quali erano certamente de’ privati2; i monasteri, che erano de’ monaci e che, ove non vi fossero piú monaci, non perciò diventavano beni del re; gli allodiali, de’ quali il re non era che amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di dichiarar beni del re i banchi, deposito del danaro de’ privati, la fabbrica della porcellana e gli avanzi di Pompei, nascosti ancora nelle viscere della terra. Il re istesso, ne’ momenti della maggiore ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si prendesse, tutto rimaneva alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno strano, perché egli era realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione che si osservava nell’editto di Faipoult.
Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò Faipoult.
O Championnet, tu ora piú non esisti; ma la tua memoria riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed alla giustizia tua. Che importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha però avvilito. Tu diventasti allora l’idolo della nazione nostra.
Il richiamo di Championnet fu un male per la repubblica napolitana. Io non voglio decidere del suo merito militare: ma egli era amato dal popolo di Napoli; e questo era un merito ben grande.