Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 42 e 43

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Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 42 e 43

Saggio storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799: capitoli 42 e 43

23 Maggio 2020

Introduzione

Capitoli 2 e 3

Capitoli 4 e 5

Capitoli 6 e 7

Capitoli 8 e 9

Capitoli 10 e 11

Capitoli 12 e 13

Capitoli 14 e 15

Capitoli 16 e 17

Capitoli 18 e 19

Capitoli 20 e 21

Capitoli 22 e 23

Capitoli 24 e 25

Capitoli 26 e 27

Capitoli 28 e 29

Capitoli 30 e 31

Capitoli 32 e 33

Capitoli 34 e 35

Capitoli 36 e 37

Capitolo 38 e 39

Capitolo 40 e 41

Pagina 42

Per giudicare rettamente di un legislatore, conviene che ei sia indipendente; per far che le sue leggi abbiano tutto l’effetto, conviene che egli sia libero. Quando o altri uomini o le cose tendono a frenare i suoi pensieri e le sue mani, quando la sovranitá è divisa, pretenderete invano veder quel legislatore nelle di cui mani è il cuore delle nazioni: i consigli son timidi le misure mezzane; tra l’imperiosa necessitá e l’occasione precipitosa, spesso il miglior consiglio non è quello che si può seguire, o solo si segue quando l’occasione è giá passata, e di tutte le operazioni voi altro non potete rilevare che la puritá del cuore e la rettitudine dei suoi pensieri.

Cosí, non altrimenti che la legge sui banchi, riuscirono inutili quasi tutte le altre leggi immaginate per isgravare i popoli dai pesi che nell’antico governo sofferiva. Io non ne eccettuo che la sola legge colla quale si abolí la gabella del pesce; legge che produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica gli animi di quasi tutti i marinai ed i pescatori della capitale.

Quando si abolí la gabella sulla farina, non si ottenne l’intento di far ribassare il prezzo de’ grani in Napoli, dove, per le insorgenze che aveano giá chiuse tutte le strade delle province, non potevano piú entrar grani nuovi, e quei che esistevano erano pochi ed avean giá pagato il dazio. Il popolo napolitano disse allora: che «la gabella si era tolta quando non vi era piú farina».

Dal 1764 era in Napoli molto cresciuto il prezzo del grano; e, sebbene questo aumento fosse in parte effetto della maggior ricchezza della nazione, non si poteva però mettere in controversia che l’aumento del prezzo degli altri generi non era proporzionata all’aumento di quello del grano. Questo non era alterato, quando si paragonava al prezzo del grano nelle altre nazioni di Europa; ma era alteratissimo, allorché si paragonava al prezzo degli altri generi presso la stessa nazione napolitana. Tutto il male nasceva da che l’industria, ed in conseguenza la ricchezza, non si era risvegliata e diffusa equabilmente sopra tutt’i generi ed in tutte le persone. Il male era tollerabile nelle province, ma insoffribile nella capitale, non perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne fosse molto piú caro che nelle province; ma perché Napoli conteneva un numero immenso di renditieri, di oziosi o di persone che, senza essere oziose, nulla producevano e che non partecipavano dell’aumento dell’industria e della ricchezza nazionale. Per rendere il popolo napolitano contento sull’articolo del pane, o conveniva migliorarlo e renderlo cosí piú attivo e piú ricco, o conveniva render piú misere le province: la prima operazione avrebbe reso il popolo napolitano contento dei nuovi prezzi; la seconda avrebbe fatto ritornar gli antichi. La sola abolizione della gabella era nella capitale un’operazione piú pomposa che utile.

Guardiamola nelle province. Essa dovette esser inutile in quei luoghi nei quali non si pagava, e questi formavano il numero maggiore; in quelli nei quali si pagava, dovette riuscire piuttosto dannosa. Il ritratto della gabella serviva a pagare le pubbliche imposizioni: proibir quella e pretender queste era un contradditorio; rinunciare a queste era impossibile tra i tanti urgentissimi bisogni dai quali era allora il governo premuto; obbligare le popolazioni a sostituire all’antico metodo un nuovo, ed obbligarle a sostituirlo di loro autoritá (giacché colla legge non si era preveduto questo caso), era pericoloso in un tempo in cui lo spirito di partito né fa conoscere il giusto né lo fa amare. Un dio solo avrebbe potuto persuadere alle popolazioni che una novitá non fosse stata allora una ingiustizia patriotica. Infatti molte popolazioni, che per la vicinanza alla capitale erano nello stato di portar i loro reclami al governo3, chiesero che la gabella sulla farina si ristabilisse.

Nella costituzione antica del regno di Napoli, ove si trattava d’imposizioni dirette, il sovrano quasi altro non faceva che imporre il tributo: la ripartizione era determinata da una legge quasi che fondamentale dello Stato, ed il modo di esigerlo era in arbitrio di ciascuna popolazione. Non si esigeva dappertutto nello stesso modo: una popolazione avea una gabella, un’altra ne avea un’altra; chi non avea gabelle e pagava la decima sul raccolto del grano, chi pagava sui fondi, chi in un modo, chi in un altro, secondo le sue circostanze, i suoi prodotti, i suoi bisogni, i suoi costumi e talora i pregiudizi suoi. Questo metodo di amministrazione avea i suoi inconvenienti; ma questi inconvenienti si potean correggere, e conservare un metodo, il quale, se non toglieva il male, lo rendeva però meno sensibile.

Questo stato della nazione fece si che inutile riuscisse anche la legge sull’abolizione del testatico. «Nessun testatico, nessuna imposizione personale avrá luogo nella nazione napolitana». Questo stesso, e colle stesse parole, era stato detto quasi tre secoli prima: quella legge era tuttavia in vigore nel Regno; ed intanto, ad onta della medesima, si pagava l’imposizione personale. In pochi luoghi si esigeva ancora sotto il nome di «testatico»; in molti si pagava ricoperta del nome d’«industria»; in moltissimi si pagava pagando un dazio indiretto sui generi di prima necessitá, che si consumano egualmente da chi possiede e da chi non possiede: ove in un modo, ove in un altro, il testatico si pagava dappertutto e non era in verun luogo nominato. La legge esisteva; ma l’abuso, cangiando le parole, faceva una frode alla legge.

Prima di riformare l’antico sistema delle nostre finanze, conveniva conoscerlo: la riforma dovea essere simultanea ed intera. Tutte le parti di un sistema di finanze hanno stretti rapporti tra loro e collo stato intero della nazione. Ma la maggior parte degli Stati di Europa erano nati, non dalle unioni spontanee, ma dalla conquista: il signore di un piccolo Stato avea oppressi gli altri con diversi mezzi ed in diversi tempi; per lo piú si erano transatti colle popolazioni, che avean conservati i loro usi, i dazi loro, i loro costumi. Una gran nazione non fu che l’aggregato di tante piccole nazioni, che si consideravano come estranee tra loro; ed il sovrano si considerava estraneo a tutte. Invece di leggi, si chiedevano «privilegi»; il sistema delle finanze non era che un’unione di diversi pezzi fatti da mani e in tempi diversi; i bisogni del momento, non essendo mai quelli della nazione, facevano sí che, invece di correggersi gli antichi abusi, se ne aggiugnessero dei nuovi; e tutto ciò produceva quell’orribile caos di finanze, in cui, al dir di Vauban, era grande quell’uomo che sapesse immaginar nuovi nomi per poter imporre un nuovo tributo senza alterare gli antichi.

Era venuta l’epoca fortunata della riforma; ma questa riforma né dovea esser fatta con leggi particolari, le quali o presto o tardi si sarebbero contraddette, né in un momento. Era l’opera di molto tempo. Sulle prime, per contentare il popolo, il quale fra le novitá è sempre impaziente di veder segni sensibili di utile, bastava dire che si pagassero solo due terzi delle antiche imposizioni. Questa diminuzione di un terzo di tutt’i tributi avrebbe attirato alla rivoluzione maggior numero di persone; mentre colla sola abolizione del testatico e della gabella della farina non si giovava che ai poveri. In séguito, quando il favore dei ricchi non era piú tanto necessario e l’odio loro tanto pericoloso, i poveri si sarebbero del tutto sgravati. Un governo stabilito deve esser giusto; un governo nuovo deve farsi amare: quello deve dare a ciascuno ciò che è suo; questo deve dare a tutti. Una commissione a quest’oggetto stabilita avrebbe fatto in séguito conoscere le antiche finanze, i nuovi bisogni dello Stato, e si sarebbe formato un sistema generale e durevole, su di cui si sarebbe potuta fondare la felicitá della nazione.

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Ma eccoci alfine ai giorni infelici della nostra repubblica: i mali da tanto tempo trascurati, ormai ingigantiti, ci soverchiano e minacciano di opprimerci. Le Calabrie si erano interamente perdute, e gl’insorgenti delle Calabrie comunicavano di giá cogl’insorgenti di Salerno e di Cetara e si stendevano fino a Castellamare. Questa stessa cittá fu occupata dagl’inglesi, e si vide la bandiera dei superbi britanni sventolar vincitrice in faccia della stessa capitale.

I francesi ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta. Ma, pochi giorni dopo, i francesi furon costretti ad abbandonare il territorio napolitano, richiamati nell’Italia superiore; e, sebbene tentassero colorire con pomposi proclami la loro ritirata, gl’insorgenti ben ne compresero il motivo e ne trassero audacia maggiore. Salerno fu di nuovo occupata: a Castellamare s’inviò da Napoli una forte guarnigione, la quale però fu ridotta a dover difendere la sola cittá, quasi assediata dalle insorgenze che la circondavano.

Magdonald, partendo, lasciò una guarnigione di settecento uomini in Sant’Elmo; circa duemila rimasero a difender Capua, e quasi altri settecento in Gaeta. Egli avea promesso lasciar una forte colonna mobile; ma questa poi in effetti altro non fu che una debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati dalla guernigione di Capua, venivano a Sant’Elmo, donde altri quattrocento uomini partivano alternativamente per Capua.

Questa forza sarebbe stata superflua presso di noi, se da principio ci fosse stato permesso di organizzar la forza nazionale. Poiché il far questo ci era stato tolto, la forza rimasta era insufficiente.

I rovesci d’Italia mostravano giá lo stato di languore, in cui la rilassatezza del governo direttoriale avea gittata la Francia. La Francia diminuiva di forze in proporzione che cresceva di volume; le nuove repubbliche organizzate in Italia, che avrebbero dovuto essere le sue alleate, furono le sue province; invece di esserne amati, i francesi ne furono odiati, perché essi, invece di amarle, le temettero.

I romani, di cui i francesi volevano esser imitatori, ritraevano forza dagli alleati. Gli spagnuoli tennero una condotta diversa, ed avvilirono quelle nazioni che doveano esser loro amiche. Ma ciò che potea ben riuscire per qualche tempo agli spagnuoli, per lo stato in cui allora si ritrovava l’Europa, non poteva riuscire al Direttorio, che avea da per tutto governi regolari e potenti ai loro confini.

Quando, in séguito di una conquista, si vuole organizzare una repubblica, l’operazione è sempre piú difficile che quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli ad ubbidire, perché egli non deve far altro che schiavi; un conquistatore, che far voglia dei cittadini, deve avvezzarli ad ubbidire e a comandare. Ma non si avvezzano i popoli a comandare senza dar loro l’indipendenza, la quale richiede un sacrificio, per lo piú doloroso, di autoritá per parte di colui che conquista. E quindi è che quasi sempre vana riesce la libertá che si riceve in dono dagli altri popoli, perché, non essendovi chi sappia comandare, non vi sará nemmeno chi sappia ubbidire, ed, invece di saggi ordini di governo, non si hanno che le volontá momentanee di coloro che comandano la forza straniera; volontá che sono tanto piú ruinose quanto il comando è piú vacillante e poco o nulla vale a prolungarlo il merito della buona condotta. La libertá invidia e la legge toglie gl’impieghi anche agli ottimi.

Questi cangiamenti ne produssero degli altri ugualmente rapidi nel governo delle nuove repubbliche. Quasi ogni mese si cangiavano i governanti nella repubblica romana. Come sperare quella stabilitá di princípi, quella costanza di operazioni, che solo può rendere le repubbliche ferme e vigorose?

Talora, oltre dei governanti, si violentava anche la costituzione; e quello stesso Direttorio, che avea violata la costituzione francese, rovesciò anche la cisalpina. Si trovarono delle anime eroiche, che seppero resistere agl’intrighi ed alla forza, e preferirono la libertá del loro giuramento al favore del conquistatore. In Napoli, quando si temeva che le idee del Direttorio potessero non esser quelle dell’indipendenza e felicitá della nazione, tutt’i governanti giurarono di deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma possiamo noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero è sempre debole; ed il popolo intero come può amar una costituzione che non si abbia scelta da se stesso e che non possa conservare né distruggere se non per volere altrui?

Si aggiunga a ciò che il principio fondamentale delle repubbliche, che è il rispetto e l’amore pe’ suoi cittadini, mentre rende un governo repubblicano attentissimo ad ogni ingiustizia che si commetta tra’ suoi, lo rende negligente sulla sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato in Roma da coloro che erano suoi eguali e che temevano piú di lui che delle province desolate. Le repubbliche italiane segnavano l’etá con sempre nuovo languore: invece di rassettarsi cogli anni, quanto piú vivevano piú si accostavano alla morte; e le altre repubbliche d’Italia dopo quattro anni di libertá, si trovarono tanto deboli quanto la nostra lo era al principio della sua politica rivoluzione.

Se i francesi avessero permesso alla repubblica cisalpina di organizzare una forza regolare, se lo avessero permesso alla repubblica romana, avrebbero potuto piú lungo tempo contrastare in Italia contro le forze austro-russe: se non impedivano l’organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero assicurata la vittoria al partito repubblicano. Ma il voler difendere la repubblica cisalpina, la romana, la napolitana colle sole proprie forze; il voler temere egualmente il nemico e gli amici, era la massima di un governo che vuol crescer il numero dei soggetti senza aumentar la forza.

Si parla tanto del tradimento di Scherer: Scherer tradí il governo, ma la condotta di quel governo avea di giá tradita una gran nazione.

La rivoluzione di Napoli potea solo assicurar l’indipendenza d’Italia, e l’indipendenza d’Italia potea solo assicurar la Francia. L’equilibrio tanto vantato di Europa non può esser affidato se non all’indipendenza italiana; a quell’indipendenza, che tutte le potenze, quando seguissero piú il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrá meco che, nella gran lotta politica che oggi agita 1’Europa, quello dei due partiti rimarrá vincitore che piú sinceramente favorirá l’indipendenza italiana.

Il destino avea finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo che allora avea la Francia non fu buono per eseguire gli ordini del destino, ed i prodirettoriali governi d’Italia non seppero comprenderne le intenzioni.

Dura necessitá ci costrinse a trascurare tutti gli esterni rapporti che avrebbero potuto salvar la nostra esistenza politica. Noi ignoravamo ciò che si faceva nel rimanente dell’Europa, e l’Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per bocca dei nostri nemici. Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese non avevamo che gazzette o rapporti piú frivoli di una gazzetta e piú mendaci. I generali francesi ci scrivean sempre vittorie, perché questo loro imponeva la ragion della guerra: ma il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e l’ignoranza in cui rimase il governo e le false lusinghe che gli furon date di prossimo soccorso accelerarono la perdita, se non della repubblica, almeno dei repubblicani. Napoli avrebbe potuto salvar l’Italia; ma l’Italia cadde, ed involse anche Napoli nella sua ruina.